Melody’s Echo Chamber: ‘Bon Voyage’ (Domino, 2018)

Per Melody Prochet, allora frontwoman dei My Bee’s Garden, fatale fu il tour che intraprese nel 2010 come opening act dei Tame Impala: si innamorò di Kevin Parker, con cui iniziò una lunga relazione che ebbe importanti conseguenze anche dal punto di vista artistico: ovvero, il suo album di debutto come Melody’s Echo Chamber, prodotto da cima a fondo dal fidanzato. Era una sorta di punto d’incontro tra le esperienze pregresse dei due musicisti: tradizione cantautorale francese vs psichedelia australiana, con un decisivo plus dettato dal sentimento che li univa. Uscito nel 2012, raccolse entusiasti giudizi da parte della critica e radunò un significativo numero di fan.

Purtroppo, mentre Melody e Kevin stavano lavorando al seguito del fortunato LP, la loro relazione si interruppe, e così anche la collaborazione musicale. Nel 2016 la Prochet dovette anche passare qualche mese in ospedale per un bruttissimo incidente stradale, così grave che si temette per il proseguimento della sua carriera. Fortunatamente riuscì a riprendersi pienamente, e spinta da un rinnovato entusiasmo, dopo aver imparato a suonare la batteria nel conservatorio dove aveva studiato da bambina, partì per Stoccolma. Voleva lavorare ad alcune sue nuove idee con alcuni amici conosciuti un anno prima a un festival ad Angers: in particolare Reine Fiske dei Dungen, altro psych-rocker ma ben più ortodosso di Parker. Nei dintorni di Solna, tra laghi e foreste, Melody ritrovò se stessa sia come persona che come artista.

Tutto questo per farvi capire come mai siano passati ben cinque anni tra ‘Melody’s Echo Chamber‘ e questo ‘Bon Voyage‘, oltre al motivo per cui la cantautrice, nella grafica di copertina, si stia cucendo le ferite, e soprattutto perché questo nuovo album è così come é, ovvero un nuovo incrocio di esperienze: al francesismo gainsbourghiano e ai trascorsi dream-pop della sua protagonista, a questo giro si miscela il gusto per la sperimentazione dei Dungen (anche Gustav Esjtes e Johan Holmegaard collaborano al disco, oltre a Fredrik Swahn degli Amazing e al vecchio amico Nicholas Allbrook dei Pond). Chi si aspettava la parte 2 di quel gradevolissimo esordio rimarrà piuttosto deluso, perché la cura dei dettagli caratteristica di Kevin Parker è stata sostituita da accorgimenti sonori sorprendenti e disturbanti: come una radio alla ricerca del giusto tuning fanno capolino inserti hip-hop, parentesi world, repentini cambi di ritmi e atmosfere, improvvisi e fulminei cut ‘n’ paste. C’è persino un brano in svedese.

Beninteso, va umanamente compresa la decisione della Prochet di lasciarsi alle spalle, anche musicalmente, un passato che evidentemente l’ha fatta soffrire (lo si capisce anche da testi), e va in ogni caso apprezzato il tentativo di trovare nuove sinergie musicali. Non si può non constatare, però, come questo processo sia ancora lontano dal dare risultati significativi, anche per una manciata di canzoni (solo sette, peraltro) non certo indimenticabili. La sensazione è che l’ansia di proporsi in una nuova veste, unita alla fretta per il ritardo accumulato, abbiano nuociuto alla composizione di questi brani. Le idee strambe dei musicisti svedesi non riescono ad amalgamarsi con la ‘classicità’ della scrittura da chanteuse di Melody, e il risultato è una sorta di ibrido musicale che finisce per essere poco attraente e significativo.

VOTO: 😐



Lascia un commento