Alaska Reid: ‘Big Bunny’ (Terrible, 2020)

Genere: alternative folk-rock | Uscita: 11 dicembre 2020

Alaska Reid è stata una bambina prodigio: a 14 anni già suonava e cantava nei locali sulla Sunset Strip di Los Angeles, accompagnata dai genitori perché, essendo minorenne, non vi sarebbe potuta entrare da sola. I suoi l’avevano convinta a prendere lezioni di chitarra, vedendola molto coinvolta dall’ascolto dei CD che il padre metteva nell’autoradio. Così, ancora giovanissima, aveva cominciato a scrivere le sue prime canzoni, innamoratissima della tradizione country del suo paese, da Merle Haggard a Patsy Cline, da Loretta Lynn a Guy Clark. Erano tempi in cui si divideva tra la California, dove il padre lavorava, e la minuscola contea di Park, in Montana, dove è nata e cresciuta, un posto sostanzialmente in mezzo al nulla tra praterie e montagne. Maturando, è stato però il suono della chitarra elettrica a intrigarla maggiormente, in particolare quelle delle Breeders e dei Dinosaur Jr. Proprio l’insana passione per questa band (“ai loro concerti mi mettevo a piangere“, ricorda lei con una certa tenerezza), l’ha spinta a contattare John Angello, storico collaboratore di J Mascis e compagni. John ha prodotto il suo primo disco, ‘Crush‘, pubblicato come band, un terzetto di nome Alyeska di cui era (facile intuirlo, visto il moniker scelto) la leader assoluta.

Quel progetto si esaurì in così breve tempo che, anche a causa del lockdown passato nella tranquillità del natio Montana, Alaska ha potuto lavorare al suo primo disco solista con un’ampia tempistica a disposizione. Un lavoro ufficialmente definito un EP, ma che può essere considerato un vero e proprio album visto il numero delle tracce incluse (nove) e la durata complessiva (più di mezz’ora). È sicuramente un’artista diversa quella che si può ascoltare in ‘Big Bunny‘: le chitarre ci sono ancora ma si rivelano decisamente meno taglienti; viene dato spazio ai suoni sintetici di Logic, software che ha permesso alla Reid di fare a meno di un batterista. Più in generale, le sue composizioni appaiono più intime e avvolgenti, e recuperano tutto quanto ha caratterizzato la sua parabola artistica: non soltanto l’alt-rock, ma anche il caro vecchio country-folk, a cui viene aggiunto un sapiente tocco dream-pop (‘Oblivion‘, ‘Boys From Town‘). Se vogliamo fare qualche rozzo paragone, non siamo molto lontani, a livello prettamente stilistico, da Waxahatchee e Phoebe Bridgers.

Sono peraltro tutte belle canzoni quelle contenute in ‘Big Bunny‘, con un paio di highlights rappresentati da un alt-pop dalla bellissima melodia come ‘Warm‘ e da una ballata molto trascinante come ‘Pilot‘, che cresce parecchio in intensità. È una caratteristica ricorrente questa, che rende i percorsi delle composizioni firmate da Alaska Reid poco pronosticabili nonché meritevoli di essere seguiti da cima a fondo: quello di ‘Quake‘ ad esempio, altro brano che ruba la scena partendo molto scarno ma riempiendosi piano piano di elettricità. Tanti spunti che rendono questo mini-album estremamente gradevole, e che portano ad annotare le generalità della giovane musicista americana nella lista di coloro che, in un non lontano futuro, potrebbero godere di ben altro airplay.

VOTO: 🙂



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