Genere: bedroom-soul | Uscita: 29 gennaio 2021
Che Anaïs Oluwatoyin Estelle Marinho, in arte Arlo Parks, sia stata un’adolescente atipica lo avevamo già constatato ai tempi dell’uscita del suo secondo EP, ‘Sophie‘. Vi rimandiamo a quell’articolo per alcuni dati biografici, probabilmente ormai noti ai più per l’esponenziale crescita dell’hype che circonda questa ventenne cantautrice londinese. Già allora, in una pubblicazione essenzialmente più DIY di questo suo album d’esordio, aveva inequivocabilmente colpito la qualità del suo songwriting, plasmata da letture (Ginsberg, Morrison) e ascolti (King Krule, Portishead) ragguardevoli, oltre a esperienze di vita analizzate con toccante lucidità e grande cuore. Composizioni così innatamente emozionanti da averle portato schiere di fan, tra cui molti illustri: di lei hanno parlato benissimo, tra gli altri, Billie Eilish, Florence Welch, Angel Olsen e Wyclef Jean; Phoebe Bridgers ci ha voluto suonare insieme, nientemeno che Michelle Obama l’ha inserita in una delle sue playlist.
I singoli che avevano dato seguito a quell’EP (oltre al precedente, più acerbo, ‘Super Sad Generation‘) non hanno fatto altro che confermare le ormai conclamate doti della musicista di origini nigeriane, ciadiane e francesi, permettendo di cogliere quella crescita esponenziale, vista la giovanissima età, del tutto auspicabile. Fondamentale l’apporto, in fase di produzione e scrittura, di Gianluca Buccellati, italo-americano cresciuto nello stato di New York, un co-writer di professione che è anche il frontman di una rockband chiamata White China. È lui che ha arrotondato gli spigoli e dato un suono molto più hi-fi a queste 12 tracce, concepite da Anaïs nella propria cameretta con la stessa spontaneità con cui, appena divenuta teenager, aveva cominciato a scrivere poesie: “Queste canzoni sono una serie di vignette e ritratti intimi che hanno caratterizzato la mia adolescenza e le persone che l’hanno plasmata“, spiega in questa intervista all’NME. “Sono radicate nello storytelling e nella nostalgia del passato; ho voluto che possedessero un valore sia universale che iper-specifico.” Depressione, senso di inadeguatezza e sofferenze affettive vengono sviscerati con candore, naturalezza e sobria semplicità in brani che, al contrario, a livello prettamente musicale non sembrano poi così opprimenti. E’ probabilmente quel concetto di “Making rainbows out of something painful” (“Generare arcobaleni da qualcosa di doloroso“, strofa d’apertura dell’ultimo brano in scaletta, ‘Portra 400‘) ad aver ispirato tutto un disco in cui bedroom-pop, soul, R&B, funk, hip-hop e trip-hop convivono naturalmente.
Non va trascurata, poi, la voce di Arlo, soave quanto ammaliante, che ricorda alcune protagoniste dei ’90/’00 elettronicamente più eleganti come Martina Topley-Bird, Tracey Thorne, Lou Rhodes e soprattutto Skye Edwards. È essenziale per quella sensazione di immenso calore umano che trasmettono ‘Hurt‘, ‘Hope‘, ‘Green Eyes‘ e ‘Eugene‘ e quasi tutte le restanti tracce di un disco che è anche un’impeccabile collezione di singoli. La Parks la preferiamo quando rimane nella propria cameretta (‘Caroline‘, ‘Black Dog‘, ‘For Violet‘) piuttosto che negli episodi in cui la produzione la avvicinano troppo all’easy-listening radiofonico (‘Too Good‘, ‘Just Go‘, ‘Bluish‘), ma considerato nel suo complesso, ‘Collapsed In Sunbeams‘ è un album quasi perfetto nel suo genere, in grado di soddisfare diversi palati nonostante si tratti di un disco sostanzialmente pop. È una virtù da instant-classic, un’etichetta a cui l’esordio di questa classe 2000 di Hammersmith, per accessibilità e per l’ottima qualità che esibisce, può indubbiamente ambire.