Big Special: ‘Postindustrial Hometown Blues’

🎵 Rap-punk | 🏷 So / Silva Screen | 🗓 10 maggio 2024

Se il concetto di working class ha ancora un senso, Joe Hicklin (voce) e Callum Moloney (batteria) lo rappresentano perfettamente. Un po’ perché provengono da quella zona grigia dell’Inghilterra, anzi nera, denominata Black Country. Abbraccia vagamente tutto ciò che sta tra Wolverhampton e Birmingham, ed è stata chiamata così dopo un processo di industrializzazione piuttosto estremo, che l’ha resa uno dei luoghi più inquinati al mondo. Poi, anche perché Joe e Callum sono storicamente squattrinati, con il primo, nel momento in cui ha avuto l’idea di dare vita ai Big Special, addirittura disoccupato e in depressione, mentre il massimo avanzamento di carriera del secondo lo aveva portato a caricare e scaricare furgoni tutto il giorno.

Si conoscono da quando avevano 17 anni, ma si erano un po’ persi di vista sino a che, all’alba dei 30, Joe non ha contattato Callum: “Joe mi ha inviato un messaggio dicendo: ‘Voglio fondare una band’ (….) Le due grandi frecce verdi che risaltano nella mia vita sono quando ho incontrato la mia compagna Billie, con cui sono fidanzato ora, e quando Joe mi ha inviato la prima demo. Ho solo pensato: ‘Ho bisogno di farne parte’“, racconta Moloney a Rolling Stone. Da quel momento, Joe è diventato “un poeta dalle spalle larghe, con il fuoco di un predicatore e l’onestà e la saggezza di un laico” mentre Callum si è occupato di creare “beat suonati dal vivo da far tremare il pavimento“, dando vita, insieme, a “esplosioni di melodiche e riff travolgenti“. Una descrizione, questa, data dalla press-release ma che fotografa perfettamente quanto si può trovare in ‘Postindustrial Hometown Blues‘, uno dei migliori debutti del 2024.

Abbiamo enormi influenze da tutti i livelli. Quindi, se volessimo fare qualcosa un po’ più soul, potremmo andare in quella direzione. Se volessimo fare qualcosa un po’ più hip hop o un po’ più punk, potremmo andare in quella direzione purché ci lascino fare quello che vogliamo“, spiega il frontman. Una figura centrale, la sua, prima di tutto perché principale autore di testi incisivi ed eloquenti, e poi per la varietà vocale che sciorina in ogni pezzo, da uno spoken-word che declina facilmente in vero e proprio rap, al timbro blues di una voce di grande impatto e perfetta intonazione, uno dei tanti contrasti di un disco che è prima di tutto punk, inteso sia come genere musicale che come ribellione a un sistema definito “opprimente“.

La lezione del concittadino The Streets sembra essere stata attentamente seguita, come quella di connazionali come Idles e Sleaford Mods. Così, si vanno ad ascoltare brani che non finiscono troppo distanti dal concetto di genialità compositiva, ma che allo stesso tempo si rivelano estremamente fruibili, cantabili e a tratti anche ballabili. La potenza espressiva di un pezzo come ‘Shithouse‘ è, per esempio, sbalorditiva, così come quella di ‘Black Country Gothic‘, ‘Black Dog / White Horse‘ o ‘Trees‘. Sorprendente è però anche la varietà stilistica delle quindici tracce che compongono la scaletta, tra cui si trova anche un synth-pop irrefrenabile come ‘Butcher’s Bin‘ o ballate amaramente emozionanti quali ‘This Here Ain’t Water‘ e ‘Dig!‘. Sono tutte accomunate da questo senso di rivalsa, personale e sociale, che rende ‘Postindustrial Hometown Blues‘ uno dei dischi più sinceri e diretti che ci sia captato di ascoltare. Nonché – certamente – uno dei più appaganti di questo primo semestre dell’anno.

😀



 

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