Genere: grunge | Uscita: 14 settembre 2018
Come sostiene Wikipedia, “è complicato definire il grunge entro termini esclusivamente musicali, proprio per la mancanza di un’unità stilistica (…) Tuttavia qualche elemento comune effettivamente esiste, soprattutto nella ripresa di sonorità di chiara derivazione hard rock e punk rock“. Se prendiamo questa definizione come corretta, i Dilly Dally sono la perfetta grunge-band. OK, non vengono da Seattle ma da Toronto, dalla parte opposta del continente, ma la loro musica è ricchissima di asperità punk e di rock duro, un po’ come lo era quella dei Soundgarden, dei primi Smashing Pumpkins, dei Nirvana.
Il percorso dei Dilly Dally non è però incentrato sul mero revivalismo, anzi. ‘Heaven‘ è venuto così com’è un po’ casualmente: la band non ha retto il successo dell’ottimo esordio del 2016, ‘Sore‘ (altro elemento comune, a pensarci bene, a molti gruppi grunge) ed era sul punto di sciogliersi. La frontwoman Katie Monks, vera marcia in più del quartetto canadese, si è voluta isolare “dalle energie negative” che ne venivano emanate, e forse anche un po’ dal mondo intero. Cancellatasi dai social network, si è chiusa in camera sua più o meno per un anno, a meditare e comporre musica. I suoi compagni di band si facevano vedere una volta a settimana per aiutarla a dare forma a quei tappeti di rumore che seguitava a creare, sui quali riversava, come recita la press-release, “parole che giungevano direttamente dal subconscio“.
Uno dei punti focali di ‘Heaven‘ è proprio la stupefacente performance vocale della Monks. Non è solo questione di tecnica, sebbene il suo timbro sia unico, ma anche di quell’aspetto che si può catalogare come “interpretazione”. Ancora più che in ‘Sore‘ la ricorrente ed estremizzata dilatazione delle vocali da parte di Katie esplicita rabbia, sofferenza, ma anche grande sensibilità. E’ un altro tratto comune con le più comunicative band grunge, ed è qualcosa che fa la differenza quando si va ad ascoltare un disco dei Dilly Dally. A maggiore ragione questo sophomore, che è marcatamente meno lineare di un esordio già di ottima personalità. Le intere giornate passate a comporre, la volontà di reagire alla crisi interna al gruppo e il succitato intervento “del subconscio” hanno fortemente segnato un suono ora molto più peculiare, compatto e penetrante. Le frequenti ripartenze dettate dalle distorsioni delle chitarre e dalle urla di Katie (come nelle rimarchevoli ‘I Feel Free‘, ‘Sober Motel‘, ‘Marijuana‘, ‘Pretty Cold‘) donano a questo disco quell’imprevedibilità che lo rende un’opera di grande spessore sia musicale che emozionale. Come accadde per i migliori album della (breve) storia del grunge.