Dry Cleaning: ‘Stumpwork’ (4AD, 2022)

Genere: alternative-rock | Uscita: 21 ottobre 2022

“Squadra che vince non si cambia”, recita il luogo comune. “Battere il ferro finché è caldo”, sostiene un’altro detto universalmente condiviso. Sono entrambe affermazioni che che calzano a pennello per ‘Stumpwork‘, il sophomore dei Dry Cleaning che giunge appena 16 mesi dopo l’acclamato debutto ‘New Long Leg‘. Nessuna soluzione di continuità, dunque, con il tour del disco precedente, durante il quale sono state scritte le nuove composizioni, piano piano aggiunte alle setlist e testate live, e quindi registrate negli stessi studi in cui era stato inciso l’esordio, i Rockfield di Mounmouth, in Galles, con il medesimo produttore, lo stimato John Parish.

Un tempismo che fa il paio con il fermento creativo della band formatasi a Londra appena 4 anni fa, e composta da musicisti di lungo corso (il chitarrista Tom Dowse, il bassista Lewis Maynard e il batterista Nick Buxton) a cui il successo era sempre sfuggito, e da una visual artist che non avrebbe mai pensato di diventare la frontwoman di una band giunta al quarto posto della UK Album Chart. Sono entrambe componenti, ancora una volta, fondamentali nel plasmare la particolare declinazione che i Dry Cleaning danno del rock alternativo: come dice Rolling Stone USA, “potrebbero benissimo separarsi e fare poesia e post-rock indipendentemente gli uni dagli altri, ma in qualche modo insieme funzionano“.

Chitarra, basso, batteria e spoken-word, riproposti così a stretto giro, potrebbero far pensare a una seconda parte di ‘New Long Leg‘ senza il fattore sorpresa che tanto aveva inciso nella riuscita del primo LP del quartetto. La quasi totale assenza di linee melodiche vocali è una componente di rischio tale da far temere una prematura assuefazione da parte degli ascoltatori, e invece, altrettanto sorprendentemente, il secondo album dei Dry Cleaning suona fresco e intrigante quanto il primo. Nella loro sporadicità, aumentano i passaggi in cui Florence Shaw accenna un breve canto, e sono tutti decisivi per il buon esito dei brani, la cui varietà è aumentata  parecchio. Ce ne sono persino un paio, a inizio disco, che potrebbero vagamente sembrare pop (‘Kwenchy Cup‘ e ‘Gary Ashby‘), e che si contrappongono con quelli più complessi e dilatati che lo chiudono (‘Liberty Logs‘ e ‘Icebergs‘). In mezzo, ci si ricorda perché la band era stata inserita nel calderone della nuova scena post-punk, di cui replica la sua personalissima rilettura (‘Don’t Press Me‘, ‘Conservative Hell‘). Tante cose, dunque, e tutte ben fatte, ma con il proprio inconfondibile marchio di fabbrica. Del resto, con i Dry Cleaning è impossibile annoiarsi: ancora una volta, i pronostici sono stati sovvertiti.

VOTO: 😀



 

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