Flaming Lips: ‘American Head’ (Bella Union, 2020)

Genere: psych-pop | Uscita: 11 settembre 2020

Nonostante Wayne Coyne riesca efficacemente a mantenere quell’aria di eterno super-giovane che va per locali insieme all’amica Miley Cyrus, di anni ne sta per compiere 60. Il che significa che quando la sua band stava muovendo i primi passi (era il lontanissimo 1983) era già 22enne, e che dunque l’adolescenza l’ha vissuta nel decennio precedente, gli anni ’70. I suoi ricordi di quel periodo sono in gran parte legati alla vivace attività di consumatori di droghe dei fratelli maggiori e a una routine nei sobborghi di Oklahoma City piuttosto deprimente, tra rapine a mano armata e propositi di suicidio.

E’ proprio questo scenario che fa da sfondo alle canzoni di ‘American Head‘, sedicesimo album in studio per una band più abituata a creare personaggi di fantasia (come per il recente ‘King’s Mouth‘) che a parlare di sé. E invece questa volta Coyne fa una sorta di bilancio della propria vita partendo proprio dalle sue memorie adolescenziali, che come una serie TV nostalgica di Netflix caratterizzano ognuna un singolo capitolo della scaletta. “Come una versione fattona di Springsteen che racconta della sua città natale“, è l’efficacissima descrizione che lo stesso frontman dà del disco in cui torna a essere assoluto protagonista.

American Head‘ è anche un ritorno diffuso alla classica formula strofa-ritornello-strofa come da parte dei Flaming Lips non si sentiva da tempo. Flashback a parte, le 13 tracce del disco potrebbero, per una volta, essere considerate ciascuna per sé, senza relazionarti a un complicatissimo e cervellotico concept. Non è un caso che quest’opera sia stata anticipata da ben sette singoli: i Flaming Lips sono tornati a scrivere canzoni dopo un decennio, gli anni ’10, passati a giochicchiare con side-project, collaborazioni improbabili, cover-album ridondanti, o a incaponirsi in sperimentazioni lodevoli ma di certo poco fruibili.

Una fruibilità pressoché totale che Wayne e compagni sembravano rifuggire a più non posso dopo i due capolavori tra fine ’90 e inizio ’00, ‘The Soft Bulletin‘ (1999) e ‘Yoshimi Battles The Pink Robots‘ (2002), entrambi prodotti, come il disco in questione, da Dave Fridmann. In realtà il succitato precedente ‘King’s Mouth‘ faceva già intravedere un processo di ‘normalizzazione’ della composizione che in questo disco raggiunge il compimento: ‘Flowers Of Neptune 6‘, ‘My Religion Is You‘ e ‘Mother Please Don’t Be Sad‘ sono brani magari non del livello di ‘Waitin’ For A Superman‘ o ‘Do You Realize??‘, ma ripropongono una versione dei Flaming Lips che sembrava essersi perduta (che poi è quella, all’interno della loro sterminata discografia, maggiormente celebrata). Ed è proprio coerentemente ad essa che ‘American Head‘ compatta melodie, creatività sonora e alte riflessioni sulla vita: è, dunque, un grande disco, quello che personalmente preferiamo tra i loro degli ultimi 10 anni.

VOTO: 😀



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