Gerry Cinnamon: ‘The Bonny’ (Little Runaway, 2020)

Genere: anti-folk | Uscita: 17 aprile 2020

Da un bar nel centro di Glasgow al John Peel Stage di Glastonbury: sono il punto di partenza e, per il momento, quello più alto della stramba carriera di Gerry Cinnamon, personaggio alquanto originale e folk-singer dalla straordinaria capacità di entrare nel cuore del proprio pubblico. Senza ufficio stampa ed etichetta discografica, si è costruito un fedelissimo seguito a piccoli passi, beneficiando quasi esclusivamente del passaparola. Già quel primo improvvisato concerto, in una serata open-mic a esibizione libera, fu un tale successo che i pub della città cominciarono a litigarselo. Sin da subito, era il 2014, i sold out si susseguirono senza soluzione di continuità: le venue che ospitavano le sue intensissime esibizioni live si fecero di volta in volta più grandi così come i palchi dei festival, che spesso non riuscivano a contenere uno zoccolo duro di fan sempre più imponente. Ben 125.000 persone sono andate a vedere Gerry nel suo ultimo tour britannico, con il picco di 50.000 biglietti venduti per il concerto del 18 luglio nella sua città natale, che probabilmente dovrà essere posticipato. E nonostante tutto ciò, a inizio dicembre The Face ancora si chiedeva: “Who the hell is Gerry Cinnamon?

In realtà quell’articolo è una sorta di impresa, una rarissima intervista a un uomo tutt’oggi molto schivo. 35 anni sono troppi per cambiare carattere, Gerry Cinnamon è sempre Gerard Crosbie, il ragazzo cresciuto a Castlemilk, periferia sud di Glasgow, che a un certo punto fu spedito per qualche anno a Londra perché si allontanasse dalle cattive compagnie. Nella capitale “non avevo altro da fare che guardare il cricket e suonare la chitarra e l’armonica“, ricorda lui, ed è quanto ancora oggi seguita a fare in ‘The Bonny‘, il sophomore che potrebbe portarlo alla definitiva consacrazione, pubblicato nonostante la chiusura dei negozi di dischi per il lockdown: “Non mi sono mai interessato ai numeri, non comincerò certo a farlo ora“.

E’ questa disarmante sincerità la base del successo di Gerry, che arriva alla gente perché autentico ed estremamente candido. Anche in sala d’incisione non ha bisogno di grandi sovrastrutture: come ai tempi di Londra, gli bastano una chitarra acustica e un’armonica per strutturare le sue canzoni dirette e appiccicose, perfette per i cori un po’ ubriachi dei pub quanto per i singalong collettivi delle arene. Soltanto il singolo ‘Where We’re Going‘ ha un’impostazione da band, le altre tracce di ‘The Bonny‘ sono spoglie quanto le potrebbe suonare un busker per strada. Eppure non risultano anonime o incomplete, tutt’altro: ‘Canter‘, ‘Head In The Clouds‘, ‘Dark Days‘, ‘The Bonny‘, ‘Sun Queen‘, ‘Six String Gun‘ ed ‘Every Man’s Truth‘ emanano tutte un fortissimo calore umano, oltre a una certa nobiltà da grande classico, qualcosa che tra i post-Dylaniani contemporanei, su un piano indubbiamente più raffinato, era riuscito soltanto a The Tallest Man On Earth. Cinnamon però è scozzese, non svedese, ha un vissuto più punk, ascoltava gli Oasis, il suo folk di quartiere è più accostabile a gente come Frank Turner o Brian Fallon, e di certo è quanto di più lontano possa esistere dal concetto di sperimentazione. Nel suo genere, però, ‘The Bonny‘ è un disco praticamente perfetto: l’audience di Gerry si allargherà, meritatamente, ancora parecchio.

VOTO: 😀



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