La Top 5 dell’anno: 1994

In ‘Alta Fedeltà’, il romanzo più celebre di Nick Hornby, il protagonista, proprietario di un negozio di dischi, era solito ‘giocare’ con i propri dipendenti/amici nel redarre alcune classifiche, composte solamente da cinque posizioni, sugli argomenti più disparati. Ovviamente, grande spazio avevano quelle musicali. Analogamente, e anche in quanto colta citazione (tutti voi, se non l’avete già fatto, dovreste leggere ‘Alta Fedeltà’), si è pensato di fare un analogo giochino a proposito degli album pubblicati negli ultimi 24 anni. Perché si parte dal 1994? Semplicemente perché fu il primo anno che il sottoscritto, da quell’anno maggiorenne, cominciò a comprare dischi in maniera compulsiva. Ovviamente è una classifica che non ha alcuna pretesa di avere un valore assoluto, ma vuole essere soltanto un modo per ricordare i bei tempi andati e alcuni album che hanno fatto la storia recente.


1. Jeff Buckley: ‘Grace’ (Columbia, 1994)

Composto da 7 brani originali e 3 cover, ‘Grace‘ fu una sorta di luce abbagliante che illuminò tutto l’anno in questione, che fu, ricordiamolo, quello della morte di Kurt Cobain. Era un disco certamente rock ma difficilmente incasellabile in un genere, in cui la protagonista assoluta era la voce di Buckley, rimasta ineguagliata. Anche la scrittura era su livelli eccelsi (‘Grace‘, ‘Last Goodbye‘, ‘So Real‘, ‘Eternal Life‘), grazie all’alchimia che si creò tra i musicisti che aiutarono Jeff, e all’ispirazione data da una storia d’amore tormentata con l’attrice Rebecca Moore. Purtroppo il cantautore figlio d’arte non poté mai dare un seguito a questo capolavoro assoluto.


2. Oasis: ‘Definitely Maybe’ (Creation, 1994)

I fratelli Noel e Liam Gallagher giunsero come un ciclone sulla nuovamente fiorente scena musicale britannica. Figli della working class un po’ ignorante di Manchester, attirarono da subito l’attenzione dei media con i loro modi strafottenti, continui litigi e soprattutto grandi canzoni. Quest’album in particolare era un po’ un bignami della storia del rock inglese, e anche la rivincita di quest’ultimo dopo anni di dominio del grunge americano. Metteva insieme le melodie dei Beatles con il piglio irriverente dei Sex Pistols e un muro di chitarre quasi shoegaze. Ha lasciato ai posteri classici quali ‘Shakermaker‘, ‘Live Forever‘, ‘Supersonic‘ e ‘Cigarettes And Alcohol‘.


3. Portishead: ‘Dummy’ (Go! Beat, 1994)

Negli anni ’90 c’erano generi musicali che dovevano ancora essere inventati. Uno di questi era il trip-hop, localizzato specificatamente nella cittadina di Bristol, sud dell’Inghilterra quasi al confine con il Galles. Da Bristol provenivano i Massive Attack ma anche i Portishead, che con questo loro esordio tracciarono la strada per miriadi di band e/o producer che gli succedettero. Basi create soprattutto con campionamenti dall’ingegnoso Geoff Barrow, canzoni tristi e cantautorali, e una voce, quella di Beth Gibbons, con un timbro e un’interpretazione tra i più incisivi della contemporaneità. Quasi inutile citare ‘Glory Box‘, uno dei brani più emozionanti della storia della musica.


4. Blur: ‘Parklife’ (Food, 1994)

La battaglia Blur-Oasis cominciò quest’anno, con il succitato ‘Definitely Maybe‘ e con uno degli album migliori della discografia dei Blur. Il brit-pop della band londinese si dimostrò cresciuto rispetto ai primi due capitoli, ma soprattutto versatile, aggettivo che ancora oggi accompagna la musica creata da Damon Albarn. Si andava dalla disco-music di ‘Girls & Boys‘ al punk di ‘Bank Holiday‘ a ballate strappalacrime come ‘End Of The Century‘ e ‘This Is A Low‘, al divertimento tra rap e spoken-word della title-trackParklife‘. Particolare non secondario: le tracce erano ben 16, senza alcun riempitivo.


5. Green Day: ‘Dookie’ (Reprise, 1994)

Il quinto posto lo assegnamo a questo disco non tanto per i meriti qualitativi (che ci sono, anche se forse non da posizione così alta), quanto all’impatto che il terzo album dei Green Day da Berkeley, Caifornia, ebbe sulle future generazioni di punk-rockers. Innanzitutto per quanti presero in mano una chitarra per rifare ‘Basket Case‘ o ‘When I Come Around‘, ma anche per aver esemplificato come il punk e il power-pop potessero splendidamente convivere. Alla fine le copie vendute furono 15 milioni (!), cifra che continua ancora oggi a crescere.


 

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