Ladytron: ‘Ladytron’ (!K7, 2019)

Genere: synth-pop | Uscita: 15 febbraio 2019

Erano ormai quasi otto anni che il fuoco creativo dei Ladytron sembrava essersi sopito: qualche tentativo di registrare nuove canzoni non andato a buon fine, sopraggiunti impegni per ciascuno dei componenti del gruppo, un’accresciuta distanza chilometrica, in paesi e città diverse, che aveva reso molto complicato lo scambio di idee e opinioni. C’era anche la sensazione di aver spremuto come un limone una formula che, se agli esordi si era mostrata singolare e intrigante, con la pedissequa riproposizione di sé stessa aveva finito per rendersi ridondante oltre la soglia di tolleranza.

Sono dunque stati salutari questi anni di attesa, sia per permettere alla band una produttiva rigenerazione, sia per indurre nel proprio pubblico una sorta di ‘effetto nostalgia’ per qualcosa che, va detto, Helen Marnie, Mira Aroyo, Daniel Hunt e Reuben Wu hanno da sempre congegnato in maniera molto personale. Nel gruppo ci sono ininterrottamente loro quattro sin dal 2001, l’anno di ‘604‘, l’LP d’esordio. Sono più o meno analoghe ad allora anche le dinamiche, con i due ragazzi che si occupano dei folti strati di sintetizzatori e le due ragazze che vi sovrappongono le loro asettiche voci.

Ladytron‘ è dunque un disco che ribadisce, quasi con orgoglio, l’unicità del loro synth-pop, sempre imparentato con krautrock e shoegaze. Mostra anche qualche leggera variazione sul tema: bassi più incalzanti (‘Until The Fire‘), divagazioni quasi techno (‘You’ve Changed‘), involontari tributi a loro follower di successo (come i Chvrches in ‘The Island‘); a un certo punto fa persino capolino la batteria di Igor Cavalera (in ‘Horrorscope‘). Tutti elementi che non modificano di molto, però, la sostanza compositiva del quartetto di Liverpool, anche per la pressoché totale assenza di eclettismo nelle due interpreti vocali. Insomma, chi già era fan dei Ladytron sarà sicuramente rallegrato da altre tredici più che discrete canzoni dei propri beniamini. Chi non lo è mai stato, troverà anche questo disco un po’ too much nel ribadire logorroicamente (e per ben 53 minuti) i medesimi contenuti.

VOTO: 😐



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