L’italiano del mese: Calcutta, ‘Evergreen’ (Bomba Dischi, 2018)

Inutile ricapitolare quanto accaduto tra novembre 2015 e maggio 2018, Edoardo D’Erme in arte Calcutta è passato da essere “quello prodotto dal cantante de I Cani” a “quello che suonerà all’Arena di Verona“. Merito, ovviamente, della sua musica, dell’autentica ‘esplosione mediatica’ (sul web più che sui media tradizionali) dell’album uscito quell’autunno di due anni e mezzo fa e intitolato (con lungimiranza) ‘Mainstream‘. Come accade spesso quando una manciata di canzoni provenienti dalla scena indipendente raggiunge un numero di persone maggiore rispetto ai componenti della scena indipendente stessa, si genera un dibattito tra due fazioni, che solitamente si possono identificare in coloro che pensano che il successo sia meritato e coloro che pensano che il successo sia immeritato. Seguono centinaia e centinaia di post con annessi discussioni e diverbi che non fanno altro che alimentare ulteriormente la notorietà dell’artista in questione. A proposito del sophomore del cantautore laziale, se non meritato il successo è stato certamente giustificato, segnatamente da quel pugno di singoli dall’eccezionale attrattiva melodica: ‘Gaetano‘, ‘Cosa mi manchi a fare‘ e ‘Frosinone‘ si rivelarono immediatamente appiccicose come la carta moschicida, anche grazie a un innato invito al singalong che caratterizza molti dei brani firmati Calcutta.

Evergreen‘ parte proprio dalla formula messa a punto con il suo predecessore, per cui la tradizione cantautorale italiana viene ‘modernizzata’ anche attraverso una scrittura di testi che si preoccupa più di assemblare immagini tramite la giustapposizione di vocaboli che di fornire un qualsivoglia ‘racconto’ che abbia un filo logico. Espediente che, lo diciamo subito, non ci fa impazzire (non solo nel caso di Calcutta), semplicemente perché più semplice da mettere in atto oltre che meno ‘comunicativo’. Nello specifico, finisce anche per creare cortocircuiti lirici di difficile comprensione, di dubbia efficacia e di rivedibile estetica, come “Il duomo di Milano è un paracetamolo sempre pronto per le tue tonsille” (‘Paracetamolo‘), “Fammi vedere il campo di kiwi dove mi vuoi seppellire” (‘Kiwi‘), “La cosa più bella che hai è la tua saliva che risbatte forte come il mare” (‘Saliva‘), “Tanto tutte le strade mi portano alle tue mutande” (‘Orgasmo‘).

Al netto di ciò, ‘Evergreen‘ appare più debole di ‘Mainstream‘ proprio nell’incisività melodica. Fondamentalmente mancano i ritornelli killer dei brani sopra citati, sebbene ‘Paracetamolo‘, ‘Pesto‘ e ‘Orgasmo‘ siano comunque canzoni sostanzialmente riuscite e che di certo si faranno canticchiare. Fanno un po’ più fatica ‘Kiwi‘, ‘Saliva‘ e ‘Hubner‘, che pagano l’ordinarietà a fronte di 50 anni di scuola cantautorale nostrana, ne fanno moltissima ‘Nuda Nudissima‘ e ‘Rai‘, forse i due brani maggiormente lavorati, ma che proprio per questo mostrano i limiti del musicista di Latina. La prima ha uno sviluppo non lineare che si fatica a seguire anche per una melodia insolitamente inefficace, la seconda è una sorta di esperimento art-pop che richiederebbe una vocalità più versatile. Insomma, al netto del successo di pubblico, ‘Evergreen‘ è un album che difficilmente realizzerà i propositi del suo titolo come accaduto al predecessore, e che soprattutto non mostra altre qualità rispetto a quelle già note.

VOTO: 🙁



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