Orville Peck: ‘Bronco’ (Columbia, 2022)

Genere: soft-country | Uscita: 8 aprile 2022

Dal rosso all’oro, dalla nicchia alla popolarità, dalla label indipendente alla major, da un ‘Pony‘ a un destriero possente e rampante, ‘Bronco‘. In tre anni, la carriera di Orville Peck è letteralmente decollata, grazie a un esordio praticamente perfetto nel suo genere, e a scelte estetiche e comunicative particolarmente azzeccate, dalla maschera che ne cela l’identità agli anti-conformisti completi glitterati. L’ossimoro del cowboy gay è effettivamente una delle componenti che ha catalizzato l’interesse sulla musica di un cantautore particolarmente dotato sia a livello vocale che strumentale, e che ha il non secondario pregio commerciale di rievocare artisti del passato, da Roy Orbison a Chris Isaak, che hanno trasportato nel presente quei generi così legati alle roots dei bianchi nordamericani.

Che in realtà Daniel Pitout, colui che ormai è certo si celi dietro al moniker del cantante mascherato, sia nato e cresciuto in Sudafrica, è un’altro aspetto di singolarità del personaggio: “Mio nonno era uno sceriffo a cavallo nella provincia sudafricana di KwaZulu-Natal, una sorta di vero cowboy. È per questo che ho sempre amato i cowboy e i ranger solitari, o anche Indiana Jones, anti-eroi che potevano trovare forza nella loro solitudine“, rivela in questa intervista a Vulture. Una passione che è diventata una metafora artistica, un travestimento che paradossalmente potesse “prendere quella piccola parte di ciò che sono nel mio privato e rappresentarne la versione extra, più grande. È il modo più autentico che ho trovato per essere un artista.” Ancora più “extra” è questo suo sophomore, per cui il budget di produzione è con evidenza ampiamente maggiore del suo esordio per Sub Pop, e di cui l’EP ‘Show Pony‘ aveva fatto da apripista, (terribile) duetto con Shania Twain compreso.

È evidentemente un disco che intende portare Peck nel mainstream, questo. Lo si capisce da diverse scelte stilistiche, dalla pulizia e stratificazione dei suoni all’accentuazione di una vocalità volta a renderlo ancora di più erede di una certa tradizione nazional-popolare americana. È un album da autoradio, ‘Bronco‘, un easy-listening da viaggi sulle assolate autostrade del sud, che abbandona le complicanze rumorose di ‘Pony‘ per abbracciare melodie e ritornelli ariosi (‘Outta Time‘, ‘C’mon Baby Cry‘, ‘Trample Out The Days‘). Si rivela dunque un lavoro meno peculiare e quindi meno interessante del precedente, ad ogni modo gradevole per le innate qualità dell’artista che elencavamo in apertura: la sua vocalità da crooner di razza, quella degli Elvis e dei Morrissey per intenderci, oltre che la sua bravura nello scrivere canzoni che riescono a comunicare una fragilità d’animo non certo tipica di pistoleri a cavallo (‘The Curse Of The Blackened Eye‘, ‘Hexie Mountains‘, ‘City Of Gold‘). Nello specifico, una brutta depressione che ha rischiato di fargli abbandonare la musica, e la conseguente catarsi conseguita proprio nel comporre. Se dunque, da parte nostra, rimaniamo sempre e comunque dalla parte di Orville, non possiamo nascondere di sentirci un po’ orfani di quel meraviglioso cantautore strambo e non convenzionale degli esordi, confidando che, una volta passata la sbornia di lustrini e paillettes, possa tornare a riproporsi.

VOTO: 😐



Lascia un commento