Genere: folk-pop | Uscita: 19 giugno 2020
C’è una certa discrepanza tra ciò che Phoebe Bridgers canta nelle sue malinconiche canzoni di disagio personale, e quello che mostra mentre le interpreta. E’ una sguardo vispo, furbetto, di una che la sa lunga e che ha abbondantemente superato i momenti difficili di cui narra nei suoi testi. Quasi li rammentasse beffandosi di chi o di cosa l’ha fatta soffrire. ‘Punisher‘, così come l’esordio del 2017, ‘Stranger In The Alps‘, è composto dalla più delicata e confortante manciata di lente ballate folk che possa essere confinata in un solo album. Vengono però veicolate attraverso uno strano costume halloweniano, videocollegamenti dal proprio tinello, del merchandising che ricorda quello di una band death metal.
E’ una strategia di straniamento che rende immediatamente simpatica chi la mette in alto, allontanando le automatiche definizioni di “bella e brava” che una giovane ragazza estremamente attraente rischierebbe di vedersi affibbiata. Che la cantautrice californiana non possieda soltanto qualità estetiche, ma che si dimostri assai più profonda in quanto a ironia, intelligenza, impegno, doti, talento, lo si afferra anche dai contributi audio-visivi da lei stessa congegnati, oltre che dall’ascolto delle sue opere, che neanche poco dopo aver passato il quarto di secolo la fanno già apparire come una veterana.
Ha quel non so che di senza tempo la produzione solista di Phoebe, che prova ad armonizzare la tradizione cantautorale americana più impegnata con la rotondità del pop melodicamente più avvolgente. Sono estremamente orecchiabili le sue canzoni, ma senza apparire eccessivamente artefatte, anzi, il coinvolgimento emotivo è sempre molto alto anche grazie a una voce caldissima, a un cantato tecnicamente impeccabile, e una riconosciuta franchezza nei suoi racconti di giovane donna contemporanea. Doti evidentemente notate dai molti che hanno collaborato con lei, da Conor Oberst a Matt Berninger dei National, passando per Matt Healy dei 1975, dalle colleghe di Boygenius Julien Baker e Lucy Dacus, dagli amici che la seguono da una vita, come Tony Berg, Ethan Gruska (i due co-produttori di questo disco), Christian Lee Hutson e Blake Mills, o dai VIP presenti nei credits quali Nick Zinner (Yeah Yeah Yeahs), Jenny Lee Lindberg (Warpaint) e gli altri due Bright Eyes.
Se c’è un rilievo da fare a ‘Punisher‘ è forse proprio questa insistenza imperitura nel folk-pop intimo e riflessivo. Non che brani toccantissimi come ‘Garden Song‘, ‘Chinese Satellite‘ o ‘Savior Complex‘ cedano a una particolare ridondanza, piuttosto perché negli episodi in cui la Bridgers si svincola dal genere di riferimento, e dagli idoli Elliott Smith e Sufjan Stevens, si intravede una versatilità molto promettente e, se possibile, da consolidare: come nel singolone super indie-pop ‘Kyoto‘ o nella coda psichedelica della conclusiva ‘I Know The End‘. Parlando di lei, ci si dimentica a volte che questo è solo il suo secondo disco da sola, e che con tutta evidenza il meglio debba ancora venire. Ma il motivo per cui Phoebe riesce musicalmente ad ammaliare chiunque la ascolti, è un’insieme di ingredienti che compongono una formula difficilmente replicabile, di cui lei sola è ideatrice, promotrice ed esecutrice. In un periodo storico in cui le (sedicenti) cantautrici di successo vengono costruite negli uffici marketing, è un aspetto per nulla trascurabile.