Genere: alternative-rock | Uscita: 13 settembre 2019
Sono ormai 15 anni che i Pixies sono tornati insieme, durando più del doppio rispetto alla loro prima parte di carriera (1986-1993). ‘Beneath The Eyrie‘ è già il terzo album da quando hanno anche deciso di ripresentarsi con regolare frequenza in sala d’incisione: da quel 2014 la loro discografia è quasi raddoppiata, giungendo al settimo LP di una carriera che somiglia molto alle loro canzoni in quanto a irregolarità e repentini cambi di umore.
Ricomposto il sodalizio con il produttore Tom Dagelty, che già aveva lavorato con loro al precedente, non indimenticabile ‘Head Carrier‘, Frank Black e soci si sono recati, il dicembre scorso, ai Dreamland Recording Studios, luogo di autentico culto musicale vicino a New York. Ricavati negli spazi di una vecchia chiesa sconsacrata, vi sono ancora funzionanti ed utilizzabili gli strumenti presenti il giorno dell’apertura degli studi, nel lontano 1986, guarda caso lo stesso anno in cui i Pixies si costituirono come gruppo. La solennità mistica dell’ambientazione ha dichiaratamente influenzato la scrittura delle nuove canzoni della seminale band di Boston, non soltanto musicalmente: un nido d’aquila scovato nelle vicinanze dal batterista David Lovering è stata l’ispirazione decisiva per il titolo del disco, e tutte quei reperti musicali provenienti dalla metà degli anni ’80 non hanno certo spinto il quartetto a perlustrare nuove strade: era nella natura delle cose, e probabilmente di tutta la loro ormai lunghissima reunion, continuare a essere semplicemente i Pixies.
E’ dunque una sorta di auto-revivalismo senza compromessi la ragione principale di ‘Beneath The Eyrie‘, opera che finalmente ci presenta una più che dignitosa versione anzianotta di una delle band che ha fatto la storia della musica. Non più una deludente parodia di sé stessi come nelle due precedenti uscite datate anni ’10, ma un disco a suo modo piacevole e anche convincente, che assolve pienamente la funzione di fornire nuovi gradevoli riempitivi da inserire tra un classicone e l’altro nelle scalette dei loro innumerevoli concerti. ‘On Graveyard Hill‘, ‘Catfish Kate‘, ‘Silver Bullet‘, ‘Los Surfers Muertos‘ (cantata dalla ‘nuova’ bassista Paz Lenchantin), ‘Bird Of Prey‘, ‘Daniel Boone‘ e ‘Death Horizon‘ sono buone canzoni, come non se ne sentivano da un po’ da parte loro; in generale tutto l’album sembra conservare una discreta ispirazione, soprattutto dal punto di vista melodico, mantenendo il consueto assortimento stilistico (sebbene più quiet che loud) nelle singole proposte. Beninteso, ‘Surfer Rosa‘ e ‘Doolittle‘ rimangono capolavori neanche minimamente paragonabili a quanto presente qui. Ma se anche i più nostalgici, per una quarantina di minuti, riuscissero a interrompere le recriminazioni per una genialità ormai da tempo scomparsa, ascoltando questo disco potrebbero persino riuscire a divertirsi.