Genere: heartland-rock | Uscita: 8 ottobre 2021
Quella appena trascorsa sembra essere stata la settimana perfetta per i fan del Newcastle United: la società definitivamente acquistata da un fondo saudita dalle risorse pressoché illimitate, e uno di essi, Samuel Thomas Fender, salito al primo posto della UK Album Chart totalizzando più vendite/ascolti delle altre nove posizioni della top 10 messe insieme (tra cui, per fare qualche esempio significativo, ci sono James Blake e Drake). È certamente un momento d’oro per il 27enne cantautore cresciuto a North Shields, cittadina di poco più di 34.000 anime sulla costa nord-est inglese. Una vera e propria rivincita personale nei confronti di una prima parte di esistenza assai complicata: per la separazione dei genitori, per la perdita del lavoro da parte della madre (con cui era rimasto a vivere in condizioni prossime alla povertà), e per il bullismo di cui fu spesso vittima al liceo.
C’è tutta l’amarezza e la disillusione di quel diciassettenne (da qui il titolo), tra i temi sviscerati da ‘Seventeen Going Under‘, che si occupa però anche di una contemporaneità che, dieci anni più tardi, non riesce a dare al più maturo Sam significative speranze per un mondo migliore. Ed è proprio la componente testuale il pugno nello stomaco di questo disco, una sorta di neorealismo fatto di rabbia e frustrazione che ne fa una testimonianza significativa, per di più da parte di un 20enne che, per una volta, non esprime i propri pensieri rappando rime. Paradossalmente, Fender affida la propria ribellione a un genere musicale vecchio di 40 anni, come avrebbe potuto fare il padre, anch’egli musicista, o il fratello maggiore, che gli passava i dischi del Boss. L’ascendente springsteeniano è, se possibile, ancora più impattante rispetto all’esordio, l’altro n.1 in classifica ‘Hypersonic Missiles‘ del 2019: a questo giro compaiono persino i fiati, per un heartland-rock revival ormai totalmente esplicito.
È un po’ il limite di un disco (celebrato in madrepatria anche dalla stampa, oltre che dal pubblico) che ha come riferimento esclusivo un singolo artista, per di più enormemente noto. Giocatosi il bonus novità un biennio fa, nel suo sophomore Sam Fender non fa altro che ripetere musicalmente sé stesso, il proprio idolo d’infanzia, e tutti coloro che ne sono stati follower, dai Gaslight Anthem (‘Aye‘, ‘The Leveller‘) ai Killers (‘Seventeen Going Under‘, ‘Get You Down‘), risultando parecchio scontato anche quando rallenta il ritmo (‘Spit Of You‘, ‘Last To Make It Home‘, ‘The Dying Light‘). C’è dunque davvero poco di inedito in queste undici canzoni, che diventano addirittura 16 in un’edizione deluxe in cui la ridondanza si fa estrema. È un peccato, perché il cantautore inglese ha davvero parecchio da dire come lyricist. Ci sarebbe bisogno della stessa spontaneità creativa anche nelle scelte sonore, che invece si adagiano in una comfort zone che ha sì permesso a Sam di diventare una rockstar nazional-popolare, ma che lo retrocede anonimamente sullo sfondo nel paragone con quei connazionali coetanei che da due-tre anni stanno letteralmente animando la scena alternative-rock inglese.