Stephen J. Malkmus: ‘Traditional Techniques’ (Domino, 2020)

Genere: prog-folk | Uscita: 6 marzo 2020

Sin dai tempi dei Pavement, Stephen Joseph Malkmus è sempre stato un musicista molto produttivo. Cinque album in poco più di 7 anni con la band che contribuì a far entrare nella storia, ma anche un paio di uscite come membro dei Silver Jews del compianto David Berman. Da quando si è messo in proprio il ritmo non è di molto diminuito, arrivando a pubblicare nove LP in meno di un ventennio, se si sommano quelli con la semplice denominazione delle proprie generalità agli altri in associazione con la sua backing band, i Jicks. Ad essi ne va poi aggiunto un ulteriore paio, ancora con i Silver Jews. Negli ultimi tempi, però, la sua produzione ha subito una forte accelerazione creativa, se è vero che questo ‘Traditional Techniques‘ rappresenta la terza pubblicazione in meno di due anni, dopo ‘Sparkle Hard‘ con i Jicks (maggio 2018) e ‘Groove Denied‘ da solo (marzo 2019).

Rispetto a quest’ultimo, il nuovo LP parrebbe voler rappresentare il suo opposto: sebbene parzialmente, ciò che caratterizzava il lavoro dello scorso anno era l’utilizzo diffuso di sintetizzatori e moderni software di registrazione digitale. A questo giro, invece, la strumentazione è totalmente analogica e anche piuttosto vasta, con la comparsa di strumenti non certo comuni da reperire. Autoharp, dobro, rabab, daf, kaval e udu, molti di essi provenienti dalla tradizione mediorientale, fanno parte della vasta gamma degli Halfling Studios di Portland, dove Stephen aveva registrato proprio ‘Sparkle Hard‘ e dove gli venne l’idea sia del concept che di chi sarebbe stato il suo principale collaboratore: Chris Funk, chitarrista dei Decemberists, colui che aveva già prodotto l’ultimo dei Jicks di due anni fa e che, soprattutto, è un grande appassionato di folk acustico.

In realtà ‘Traditional Techniques‘ non è certo scarno e minimale come si potrebbe pensare. I musicisti ingaggiati dall’ex Pavement e dal suo produttore sono una decina, tutti di comprovata abilità. Grazie a loro, il suo nono album solista riesce a raggiungere gli obbiettivi che si era prefissato, quantomeno a livello stilistico: “Era un po’ che pensavo alla possibilità di darmi delle regole precise per la composizione di un disco“, racconta a NPR.”Sono sempre stato curioso di vedere come avrebbe potuto suonare la mia musica abbassando volume e tonalità.

La stratificazione tra la succitata 12 corde, le chitarre suonate da Funk e Matt Sweeney (ex Skunk, Chavez e Zwan) e i suoni etnici di Qais Essar ed Eric Zang rendono questo lavoro assolutamente unico nella discografia di Malkmus. Stephen pare però aver preso troppo alla lettera i propri intendimenti, finendo per concentrarsi quasi esclusivamente sulla forma. Della sua produzione autonoma, peraltro, il musicista californiano si porta dietro la non frizzantissima vena compositiva (Spiral Stairs gli è sempre mancato parecchio, ndr) , che dilata e allo stesso tempo appiattisce un po’ tutte le canzoni in scaletta. Ci sono poche eccezioni, la toccante ‘The Greatest Own In Legal History‘ e la brillante ‘Juliefuckin‘, una sorta di versione unplugged dei Pavement. Il resto, sebbene molto ben suonato, è piuttosto monotono, leggermente ridondante e privo di particolari guizzi. L’esatto opposto di quanto sapeva offrire il gruppo che lo ha reso celebre.

VOTO: 🙁



Lascia un commento