Stone Temple Pilots: ‘Stone Temple Pilots’ (Rhino, 2018)

Ne sono successe di cose, purtroppo, dallo scorso album degli Stone Temple Pilots, intitolato anch’esso con il semplice nome del gruppo. Era il 2010, c’era ancora Scott Weiland dietro al microfono. Quando morì, nel 2015, aveva già lasciato la band da due anni, sostituito da Chester Bennington dei Linkin Park, a sua volta uscito dal gruppo e, malauguratamente, anch’egli scomparso. In realtà, gli Stone Temple Pilots, almeno dal punto di vista creativo, sono sempre stati i fratelli DeLeo, Dean (chitarra) e Robert (basso). Sono loro autori di quasi tutte le canzoni, capaci di posizionarsi nella zona di interscambio tra alternative rock, grunge e hard rock che fece la fortuna del gruppo nel culmine di popolarità di questi generi (ovvero la prima metà degli anni ’90), con due capolavori come ‘Core‘ (1992) e ‘Purple‘ (1994), per la verità mai più replicati a livello qualitativo.

Questo ‘Stone Temple Pilots‘ versione 2018, settimo LP in carriera, non si sposta di una virgola da ciò che ha reso celebre il gruppo anzi, per certi versi elimina la componente alt-rock per ‘istituzionalizzarsi’ in un hard-rock sporcato di grunge. E’ un disco onesto, ben suonato, grintoso quanto il genere richiede. E’ un album marcatamente revivalista, destinato a chi ha ancora la band nel cuore nonostante tutto. Anche la scelta del nuovo frontman, avvenuta tramite casting, sembra essere stata fatta in quella direzione: Jeff Gutt ricorda vagamente Weiland sia vocalmente che fisicamente. In definitiva, se avete nostalgia di un certo rock rude di 25 anni fa, questo è l’album che fa per voi. Per tutti gli altri risulterà un po’ troppo convenzionale e fuori tempo massimo, e allora il consiglio è di andare ad ascoltare, almeno una volta, ‘Core‘ e ‘Purple‘.

VOTO: 😐


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