Leggenda narra che Laura Colwell (voce, tastiere) e Stephen Salisbury (chitarra) fossero colleghi e collaboratori del regista Terrence Malick. Avrebbero cominciato a suonare insieme nella sala montaggio, approfittando dei periodi di assenza del loro superiore. Tim Presley, capo della piccola etichetta Keeled Scales, avrebbe ascoltato la loro musica per la sola e semplice ragione di essere l’occupante dell’appartamento del piano di sopra. Da qui sarebbe scaturita l’offerta di registrare dei demo, a cui sono seguite la decisione di aggiungere alti tre componenti al gruppo e la realizzazione di questo album d’esordio.
I Sun June percorrono sicuri quel sottile confine che nell’universo pop divide il folk- dal dream-. Il cantato di Laura ricorda abbastanza quello di Sharon Van Etten, la chitarra di Stephen sembra prefiggersi di essere importante come quella di Alex Scally per i Beach House. Ne deriva un suono mellifluo, flemmatico, essenziale ma a suo modo caldo e intrigante, subito esplicitato nell’opener ‘Discotheque‘, che a dispetto del titolo non ha certo atmosfere da balera. Sono i primi tre brani il meglio di questo disco, e anche la sintesi di quanto sanno fare i Sun June: ‘Slow Rise II‘ ha qualche (pochi) BPM in più, e dopo la partenza eterea, cresce fino a una coda elettrica che le dona interesse e specificità. ‘Young‘ è la traccia melodicamente più riuscita, e a pari di quella che l’ha preceduta, la più emotivamente coinvolgente. Anche in questo caso la chitarra di Salisbury cresce di intensità nelle parti importanti del pezzo, fornendogli quella dinamicità di cui nelle restanti tracce si sente un po’ di nostalgia. E’ l’unico limite di un disco che, proprio come un film di Malick, è curato in ogni minimo dettaglio con fattura pregevolissima (citiamo anche le ottime ‘Records‘ e ‘I’ve Been‘) nonostante si tratti di un debutto. I Sun June devono solo imparare a lasciarsi andare un po’ di più: meno cervello e più istinto, e sarebbero perfetti.