Snow Patrol: ‘Wildness’ (Polydor, 2018)

Nel 2001, dopo due ottimi album che sfortunatamente non ebbero grande riscontro di pubblico, gli Snow Patrol si ritrovarono squattrinati e senza un contratto discografico. ‘Songs For Polarbears‘ (1998) e ‘When It’s All Over We Still Have To Clear Up‘ (2001) mostrarono tutto l’amore di Gary Lightbody per Sebadoh, Pixies e My Bloody Valentine, ma non riuscirono nell’intento di far rinnovare l’accordo con la Jeepster Records (la stessa etichetta scozzese che lanciò i Belle And Sebastian). A posteriori si può dire che non fu una scelta molto lungimirante da parte della Jeepster; la decisione costrinse Gary a vendere quasi tutta la sua collezione di dischi per racimolare i soldi che potessero far proseguire l’attività del gruppo. Le sue qualità di songwriter non avevano però lasciato indifferente un vecchio compagno di università, Richard Smernicki, che nel frattempo era diventato uno dei boss della Polydor. Fu così che gli Snow Patrol poterono siglare un nuovo accordo, questa volta ben più remunerativo, e pubblicare quel ‘Final Straw‘ (2003) che li lanciò definitivamente nel gotha del rock britannico.

Il trauma per quel tribolato periodo (che Lightbody successivamente definì “miserable“), il contratto con una major e l’ingresso nel gruppo del chitarrista Nathan Connolly cambiarono indiscutibilmente il suono del (divenuto) quartetto, che abbandonò gli spigoli degli anni indipendenti per ‘arrotondarsi’ in un rock adulto e rassicurante. Almeno inizialmente, la fattura era comunque pregevole, basti ricordare i due singoli più famosi, ‘Run‘ e ‘Chasing Cars‘. La carriera della band di origine nord-irlandese (ma formatasi a Dundee in Scozia) proseguì su quella falsariga, avvicinandosi di molto a U2 e Springsteen. Dai Sebadoh a Springsteen lo scarto è (anche filosoficamente) piuttosto significativo, e, nei capitoli successivi, l’incapacità (o la mancanza di volontà) per un’ulteriore sterzata ha finito per ‘normalizzare’ molto la proposta musicale di Gary e soci. Aggiungiamo anche un writer’s block che un paio di anni fa fece completamente cestinare la prima versione di quello che sarebbe diventato ‘Wildness‘, e il quadro è completo.

Purtroppo, questi 7 anni trascorsi dal precedente album in studio (‘Fallen Empires‘ del 2011) non sono serviti a rigenerare la scrittura di Lightbody, che continua a trascinarsi stancamente senza alcun guizzo creativo (‘Don’t Give In‘, ‘Empress‘), timorosa di non uscire da un seminato che ha portato successo e allontanato la succitata miseria. La strada tracciata sembra irreversibile, per gli Snow Patrol l’habitat naturale sono ormai le autoradio di uomini e donne di mezza età in gita nella campagna inglese (‘Life On Earth‘, ‘What If This Is All The Love You Ever Get?‘). Anche la produzione del ‘fidato’ Jacknife Lee si fa ridondante e ingiustificatamente stratificata, e i pochi tentativi di dare un’alternativa a un suono in tutti i sensi attempato (gli accenni elettronici in ‘Heal Me‘, il funk-rock di ‘A Dark Switch‘, l’R&B in falsetto di ‘A Youth Written In Fire‘) falliscono piuttosto ingloriosamente. In ‘Wildness‘ mancano sia le stilettate elettriche degli esordi che le ballatone altamente emozionali della seconda parte della carriera. Mai titolo fu così poco attinente al proprio contenuto.

VOTO: 🙁



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