Genere: hard-rock | Uscita: 24 maggio 2019
Alla veneranda età di 48 anni, Stephen McBean è riuscito finalmente a prendere la patente. Un traguardo tanto agognato quanto oramai insperato, che ha cambiato, almeno in parte, la sua percezione del mondo. Soprattutto in quei suoi primi percorsi on the road: dietro al volante si sentiva totalmente libero, ma anche nervoso e un po’ timoroso. Un po’ di metal nell’autoradio era quello che ci voleva per far passare la paura.
Da quei giorni, era il 2017, a oggi, di scorrazzate in auto il buon Sam ne ha fatte. Ha trovato il tempo anche di registrare un nuovo disco, il quinto con i Black Mountain, sebbene in versione parzialmente rinnovata: fuori Amber Webber (voce, cori) e Joshua Wells (batteria), dentro rispettivamente Rachel Fannan (dagli Sleepy Sun) e Adam Bulgasem (Dommengang, Soft Kill), con Jeremy Schmidt (tastiere) e Brad Truax (basso) confermati nella loro posizione abituale. L’improvvisa passione per le quattro ruote ha portato il musicista canadese a chiamarlo ‘Destroyer‘, come il modello di Dodge del 1985, ma anche come un qualcosa che dà l’idea del vigore chitarristico di questo LP, un po’ come il metal nella succitata autoradio.
E’ infatti la pesantezza rock a caratterizzarlo: i Black Mountain a questo giro sembrano una band catapultatasi nel 2019 direttamente dagli anni ’80; psichedelia e progressive perdono terreno a favore di una sorta di revival capellone da band spalla dei Metallica. C’è molto, anche troppo di kitsch in questo disco, volutamente esagerato come una sgasata sulla highway, o come il freno a mano di un 18enne alla guida della sua prima utilitaria. La differenza è che Sam ha una chitarra in mano e, per fortuna, a suonarla era già bravo da tempo.
C’è dunque questa duplice chiave di valutazione per il nuovo lavoro del quintetto di Vancouver: se si considera la mera esecuzione, non si può non seguitare a riempire di ulteriori lodi il lavoro del chitarrista canadese, che mette in mostra le proprie abilità con riff taglienti, cavalcate elettriche e veri e propri muri di suono. Se la valutazione deve però considerare la complessiva composizione dei pezzi, non si può non rilevare un utilizzo eccessivamente reiterato di cliché hard-rock di dubbio gusto: esemplificative, a proposito, sono l’opener ‘Future Shade‘ e le tamarrissime ‘High Rise‘ e ‘Licensed To Drive‘. Un po’ di stupore lo si finisce per provare soltanto in conclusione, con la glam/Bowieiana ‘FD’72‘. Per il resto, lo scimmiottamento musicale di un periodo storico, che il mondo ha peraltro tentato di relegare nell’oblio, è oltremodo evidente. La nostra personale stima nel leader dei Black Mountain è altresì troppo alta per riuscire a rimanere pienamente soddisfatti di questo disco.