Mumford & Sons: ‘Delta’ (Island, 2018)

Genere: adult-folk | Uscita: 16 novembre 2018

Stavano proprio bene quei vestiti da campagnoli ai Mumford & Sons. Così conciati parevano giungere da un’altra epoca, sbarcati tra noi al momento giusto (nel 2009), quando avere la barba cominciava ad essere hipster e i giovani aspiranti musicisti si interessavano più agli ukulele che alle chitarre. Qualche anno prima Fleet Foxes e Bon Iver avevano aperto la strada alla folk invasion, e a livello di marketing musicale il quartetto inglese riempiva perfettamente la remunerativa casella posizionata all’incrocio tra la nuova tendenza e l’easy-listening che piace tanto alla ggente. ‘Little Lion Man‘, poi, era davvero un gran pezzo, una frizzante ballatona acustica che funzionava persino in discoteca.

Poi, però, tutta quella magia improvvisamente svanì. Di moda rimasero solo la barbe, tutto il resto ritornò negli armadi, rispolverato ogni tanto solamente da qualche nostalgico del genere. Bon Iver si mise persino a scrivere canzoni con Kanye West e a utilizzare il vocoder; i Fleet Foxes addirittura sparirono dalla circolazione per anni. Anche per i Mumford & Sons si era reso necessario riporre in soffitta gli abiti rustici e vestirsi con qualcosa di più alla moda. Così, nel 2015 (con ‘Wilder Mind‘) decisero di sostituire l’acustico con l’elettrico, provando a tuffarsi nell’adult-rock. L’operazione non fu apprezzatissima dalla critica ma diede loro comunque un discreto riscontro di vendite: Marcus e figli, era ormai chiaro, si erano guadagnati una solidissima fanbase.

Le loro canzoni, del resto, sono sempre state perfette per quei momenti interlocutori della giornata in cui si ha necessità di un sottofondo non troppo invadente: in autoradio, al supermercato, in una sala d’attesa. Sono anche un’ottima soluzione per chi ha una certa passione per la musica suonata ma non ha il coraggio di aumentare il coefficiente di difficoltà dei propri ascolti. Insomma, per chi apprezza U2, Coldplay, Maroon 5, Fray, Stereophonics, Killers e Kings Of Leon, i Mumford sono una valida alternativa.

E’ evidentemente questo il pubblico a cui i quattro ragazzi londinesi lisciano il pelo nel loro quarto album. Quasi non volessero scontentare nessuno, si barcamenano tra una moltitudine di generi musicali, passando dall’amato folk al rock (sempre in versione piuttosto soft) con sortite elettroniche, R&B e persino jazz. Comune denominatore è la voce di Marcus, che canta tutte le canzoni come ha sempre cantato tutte le canzoni, e la ferma volontà di non essere troppo disturbanti. Ci si mette anche la produzione di Paul Epworth, che tenta di dare freschezza a brani che di natura non lo sono. Così, ‘Delta‘ diventa un prolisso (14 tracce per più di un’ora) minestrone dove c’è di tutto e di più, un impersonale pastiche in cui nulla viene approfondito e in cui non si scorge alcuna direzione definita. Annunciato come un album che si sarebbe preso inediti rischi, in realtà non ne affronta nessuno, anzi, mostra soltanto diversi modi di adeguarsi a quanto passa nel convento del mainstream contemporaneo. Sono pochi i momenti che riescono a destare attenzione: ‘Woman‘, un bel brano electro-R&B che ricorda gli Alt-J, e i cambi di atmosfera di ‘Darkness Visible‘. Il resto è tanta ordinarietà (‘Beloved‘, ‘October Skies‘, ‘Wild Heart‘, ‘Delta‘) e anche un po’ di pacchianeria (‘If I Say‘, ‘Forever‘, ‘Slip Away‘). Forse, tornare in quella soffitta a recuperare gli abiti contadini di dieci anni fa potrebbe non essere una cattiva idea.

VOTO: 🙁



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