Genere: chamber-pop | Uscita: 15 marzo 2019
Il ragazzino che compare nella foto che fa da copertina all’album d’esordio solista di Finn Andrews, leader e frontman dei Veils, è lo stesso Finn all’età di 9 anni. Infilato in un abito lamé apparentemente molto femminile, è ritratto in primo piano, al centro della scena, una sorta di anticipazione di quello che sarebbe stato il suo futuro. Andrews è in primissimo piano anche in ‘Love, What Can I Do?‘, la prima traccia in scaletta, che lo vede in totale solitudine cantare e suonare il pianoforte. Sono due indizi evidenti di quanto il musicista anglo-neozelandese consideri questo disco come preminentemente suo, che è poi la ragione principale per cui lo ha accreditato al proprio nome e cognome piuttosto che al moniker The Veils: “Sentivo di avere veramente bisogno di dire qualcosa, e per una volta sono riuscito a farlo. Tutto ciò mi fa provare una piccolo senso di orgoglio.”
Del resto, erano ben cinque anni che Finn stava lavorando a questo LP, per cui ha nel tempo preservato quelle canzoni che erano evidentemente troppo personali per finire nei dischi di una band. Erano anche troppo intime perché venissero registrate nel caos di Londra, dove peraltro il Nostro non si sentiva più a proprio agio, anche a causa della fine di una relazione importante. E’ così è tornato a Auckland, “dove sapevo avrei trovato le persone giuste per realizzarlo“. Tra di esse, il produttore Tom Healy, che gli ha fatto incidere quasi tutto in presa diretta, così da renderlo ancora più spontaneo.
Dal punto di vista prettamente musicale, la principale differenza con gli album dei Veils è l’utilizzo del pianoforte in luogo della chitarra. A esso vengono aggiunti archi e fiati, che supportano al meglio l’interpretazione al solito molto intensa di Andrews e la qualità della sua voce. Fulgido esempio a proposito è uno dei brani migliori, ‘Stairs To The Roof‘, melodicamente aperto e emozionalmente pregnante. Sono aspetti costanti anche nelle tracce a venire, come ‘Hollywood Forever‘, arrangiate con gusto, eleganza e perizia. Il pop cantautorale e colto di Finn fa la spola tra la camera (‘What Strange Things Lovers Do‘) e il cabaret (‘One By The Venom‘), ha un tocco vintage e al contempo evergreen, non scende mai di livello e non esagera nel minutaggio. ‘One Piece At A Time‘ è dunque un disco molto riuscito, che mostra un artista che ha piena fiducia nei propri mezzi e che non teme di tentare una nuova strada. E che andrebbe molto più considerato di quanto in realtà è.