Fleet Foxes: ‘Shore’ (Anti-, 2020)

Genere: indie-folk | Uscita: 22 settembre 2020

Il placido incedere che da sempre caratterizza le canzoni dei Fleet Foxes non è tanto dissimile da quelle che sono state le tempistiche di realizzazione del quarto LP della loro storia. Iniziato a settembre 2018, ci sono voluti due anni, lockdown compreso, per terminarlo. 15 brani per 55 minuti di durata non sono pochi in effetti, e il procrastinarsi delle registrazioni ha fatto sì che venissero pubblicati appena successivamente al termine della lavorazione, anche per rispettare l’idea di farlo uscire, a sorpresa, il giorno dell’equinozio d’autunno.

Arthur Russell, Nina Simone, Sam Cooke, Emahoy Tsegué-Maryam Guebrou” sono i riferimenti citati dalla press-release della Anti- Records, che per la prima volta si occupa della diffusione di un disco di Robin Pecknold, sempre più one-man-band. È proprio la sua vicenda umana nuovamente in primo piano, un cambio di prospettiva nei confronti delle avversità della vita che, paradossalmente, la pandemia e l’ondata di proteste sociali che hanno investito gli Stati Uniti hanno reso meno preoccupanti e ansiogene: “Mi sono sembrate così irrilevanti rispetto a quanto stavamo vivendo tutti insieme“, confessa il frontman. È dunque una sorta di rinascita quella rappresentata da ‘Shore‘, “un luogo sicuro vicino al confine con l’ignoto“, che lo ha portato a riabbracciare quel folk solenne e stratificato che ha caratterizzato l’ascesa del suo gruppo, ma in una versione più disincantata e ottimista: in scaletta ci sono due brani, ‘Sunblind‘ e ‘Young Man’s Game‘, che potremmo persino definire allegri.

Rispetto alle complicanze prog di ‘Crack-Up‘ (2017), questo ritorno al passato rende ‘Shore‘ il classico album ad uso e consumo dei fan acquisiti. Contiene quell'(apparentemente) immutabile ampollosità vocale tipica di Pecknold (‘Can I Believe You‘, ‘Featherweight‘), il frequente utilizzo del canto corale (‘For A Week Or Two‘, ‘Thymia‘), l’abituale sovrabbondanza di strumentazione e una buona dose di stereotipi di genere, compreso il cinguettio di volatili (‘Maestranza‘). Nulla che – confessiamo con tutta sincerità – ci abbia mai impressionato della musica dei Fleet Foxes, e che ancor meno può farlo a oltre 12 anni di distanza dalla loro prima apparizione. Una sorta di impeccabile esercizio di stile riproposto pedissequamente, anche in questo LP con pochissime variazioni sul tema e parecchia ridondanza. 15 tracce e quasi un’ora di durata risultano davvero parecchio eccessive e alla lunga un po’ noiose (arrivare al quinto minuto di ‘Cradling Mother, Cradling Woman‘ è davvero ostico), fanno eccezione i due succitati brani più briosi e un bellissimo pezzo voce e chitarra acustica, ‘I’m Not My Season‘, che per una volta esula dalla famigerata formula. Qualcosa che potrebbe essere preso in considerazione per il futuro, e che magari consentirebbe a Pecknold di risolvere con maggiore celerità il blocco dello scrittore sperimentato durante il concepimento di questo disco.

VOTO: 😐



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