Lana Del Rey: ‘Norman Fucking Rockwell!’ (Polydor, 2019)

Genere: pop | Uscita: 30 agosto 2019

La saga artistica di Lana Del Rey, giunta ormai al sesto capitolo, è sin dal 2012 uno dei più ispirati esempi di marketing musicale post-ideologico. Fu infatti dal battage pubblicitario per il lancio del singolo ‘Video Games‘ che risultò evidente la differenza con gli altri prodotti discografici destinati a un mercato allargato. Vennero scelti canali cosiddetti indipendenti, primo fra tutti la celeberrima webzine Pitchfork: l’intento era chiaramente quello di dare alla cantante newyorkese un autorevolezza superiore rispetto alla colleghe di major, creando un personaggio quasi mistico, imbottito di citazioni musicali e cinematografiche del passato, sedicentemente responsabile del proprio destino. L’impalcatura mediatica rischiò però di saltare quasi subito: Lana venne fatta esibire un po’ troppo frettolosamente al Saturday Night Live, palesando nell’occasione limiti evidenti di intonazione e di tenuta del palco, tanto che in seguito venne quasi sempre accompagnata on stage da vocalist di supporto (come si può vedere in questo documento filmato del suo recente concerto al Lollapalooza brasiliano).

Born To Die‘, comunque, fu un successo: disco di platino in 17 nazioni, con quasi 4 milioni di copie vendute. Di certo, la aiutarono parecchio gli 8 produttori, i 10 songwriter, i 18 musicisti, le 6 coriste e i 18 ingegneri del suono coinvolti nella realizzazione del disco. Un dispiegamento di forze degno delle più celebri popstar del pianeta, da Lady Gaga in su. L’investimento in mezzi e uomini indubbiamente funzionò, e venne replicato in tutti i suoi lavori successivi, che da Elizabeth Grant vedono un quasi esclusivo contributo vocale (la Del Rey non ha mai praticamente suonato nessuno strumento in nessuno dei suoi dischi) e per quanto riguarda quello compositivo è sempre affiancata da un’altra firma: non esiste, da ‘Born To Die‘ in poi, una sola canzone accreditata esclusivamente a Lana Del Rey (fonte Wikipedia). Ogni suo LP è quantomeno co-composto insieme al principale produttore dell’opera, come nel caso di Dan Auerbach dei Black Keys per ‘Ultraviolence‘ (2014) o di Jack Antonoff dei Bleachers per questo ‘Norman Fucking Rockwell!‘.

Anche il sesto LP della cantante newyorkese presenta un lunghissimo elenco di collaboratori: otto produttori, che diventano 25 persone se si considera il personale tecnico nel suo insieme, e 26 musicisti, con Lana che si limita a cantare e a suonare una tromba nella traccia numero 9. Antonoff ha optato per un ritorno deciso alle sonorità vintage dei due primi episodi della carriera della vocalist, e l’ambientazione sonora costruita, cinematograficamente retrò con tanto di archi, fiati e persino arpe, è certamente mirabile. Sono pochissime le cadute di stile, in genere quando si eccede nella direzione di un pop un po’ troppo facile (‘Doin’ Time‘, ‘California‘); il limite più grande del disco risulta essere l’eccessiva ripetitività all’interno dell’ora e sette minuti di una durata che forse si poteva scegliere di limitare. Se si considera nella sua totalità però, ‘Norman Fucking Rockwell!‘ è certamente un buon lavoro, estremamente curato e dettagliato, sebbene non il capolavoro da più parti proclamato.

Il nuovo album di Lana Del Rey, cosi come tutti i suoi dischi precedenti, pone però degli interrogativi che riguardano il metro di valutazione delle opere musicali, in rapporto soprattutto al talento espresso e alla spontaneità artistica mostrata. Ci sembra abbastanza oggettivo sostenere che le pubblicazioni a lei attribuite siano in realtà frutto un lavoro di un gruppo molto allargato di persone, e che i termini “cantautrice” e “musicista” non siano, nel suo caso, pienamente calzanti. Per chi si propone di darne valutazione (che come in qualsiasi occasione si parli di arte non può che essere opinabile), si pone quindi una questione di merito, nell’autentico significato del termine: è possibile accomunare un album del genere a un LP, ad esempio, di St. Vincent o di Sharon Van Etten, per cui in pressoché tutte le fasi di creazione (dalla scrittura all’interpretazione, dalla produzione all’esecuzione) sono coinvolte in prima persona le titolari dell’opera? Non è forse più difficoltoso realizzare un disco in autonomia, o comunque con un team limitato di persone, che in 50? Questa maggiore fatica impiegata nella realizzazione di un album va premiata o a contare è soltanto il risultato finale? Ed è corretto attribuire a un unico individuo il lavoro di una cosi grande moltitudine di professionisti, soprattutto nel caso in questione, ovvero quello in cui gli unici tipi di contributi sono il volto e la voce e, molto parzialmente, la composizione?

Sono domande a cui non ci sentiamo di dover rispondere esplicitamente, giacché ognuno è ampiamente libero di decidere su quale aspetto artistico posare maggiormente la propria attenzione e la propria considerazione. Sono però principi dirimenti per la formazione di un giudizio di merito. Ed è per questo che pensiamo che il voto a questo disco filosoficamente non possa essere assegnato, perlomeno non prima che si risolvano i quesiti di cui sopra.

SENZA VOTO 🤐



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