Genere: art-pop | Uscita: 22 ottobre 2021
In un mondo che è uscito stravolto dagli ultimi tre anni, poco è cambiato nell’immaginario musicale dei Parquet Courts: “Vorrei che faccia ballare“, diceva A. Savage nel 2018, in occasione della pubblicazione del precedente ‘Wide Awake!‘. “Era un disco che potevi mettere su a un party“, conferma oggi Austin Brown, che a proposito di questo ‘Sympathy For Life‘, loro settimo LP in carriera, dice essere “stato influenzato dal party stesso“. Insomma, nonostante tutto, dalle parti della band newyorkese si continua a festeggiare. A variare sono soltanto le fonti d’ispirazione: se un triennio fa erano “Youth Of Today, Gorilla Biscuits e Black Flag“, a questo giro sono diventate “i club di New York, i Primal Scream, i Talking Heads“. “Il focus è sul groove anziché sul ritmo“, è la rilevante precisazione della press-release.
Del resto, i Parquet Courts sono sempre stati una band di puro istinto: “La più grande risorsa che abbiamo, come artisti, siamo proprio noi stessi in quanto band. Ognuno per gli altri è come se fosse uno strumento, ed è per questo che la nostra forma di espressione più pura è l’improvvisazione“, spiega Brown. Ed è per l’appunto nelle jam session che si fonda la genesi di questo disco, la cui lavorazione è iniziata al Bridge Studio di New York e continuata sui monti Catskills, non prima che i singoli elementi del gruppo iniziassero ad abbozzare le prime idee in autonomia. Savage, ad esempio, lo aveva fatto in Italia (ecco la ragione di titoli italofoni come ‘Trullo‘ e ‘Pulcinella‘), durante una vacanza animata dall’assunzione di… allucinogeni (😅): “Di giorno mi facevo i viaggi e di notte scrivevo“, racconta con abbondante dose di schiettezza.
Improvvisazione, droghe e Rodaidh McDonald, produttore non propriamente rock ‘n’ roll (in passato al lavoro con XX, Hot Chip e David Byrne), hanno plasmato l’album meno rock di una band che non aveva mai messo le chitarre così in secondo piano. Sono componenti altresì necessarie per comprendere appieno un disco che in alcune parti è un po’ naif, qua e là apparentemente inconcludente, molto spesso spiazzante: si passa da garage-rock piuttosto duri e puri (l’opener ‘Walking At Downtown Pace‘, ‘Black Widow Spider‘, l’altro singolo ‘Homo Sapien‘) a veri e propri trip sfocati e allucinati nei quali si ha costantemente la sensazione che, da un momento all’altro, possa intervenire un featuring di Manu Chao (‘Marathon Of Anger‘, ‘Plant Life‘, ‘Trullo‘). Se i primi sono brani gradevolmente orecchiabili ma assai prevedibili, nei secondi è l’estrema focalizzazione su groove e beat a renderli piuttosto insipidi e probabilmente più adatti a un after che a un party. A livello dei migliori Parquet Courts c’è poco: forse il crescendo (sebbene un po’ macchinoso) di ‘Application/Apparatus‘, certamente la conclusiva ‘Pulcinella‘, ballatona intensa come mai riesce a essere questo disco nelle dieci tracce precedenti.