Tame Impala: ‘The Slow Rush’ (Modular, 2020)

Genere: psych-pop | Uscita: 14 febbraio 2020

Chi si era fatto l’idea che i Tame Impala fossero una band, aveva storicamente torto: sin dalla loro costituzione (nel lontano 2007) Kevin Parker, allora molto attivo in diverse formazioni della scena musicale di Perth, li aveva concepiti come un “home-recording project“, dunque come qualcosa di prettamente personale. Aveva però bisogno, almeno inizialmente, di musicisti: li prese dai Pond, collettivo di cui, tra il 2009 e il 2011, era anche diventato il batterista. Alcuni degli stessi Pond, Jay Watson e Cam Avery, sono ancora nella backing band che lo accompagna live, nella quale figura anche l’amico di lunga data Dominic Simper. Proprio con lui, ancora teenager, aveva fondato i Dee Dee Dums, ovvero quell’entità che successivamente si sarebbe trasformata in Tame Impala.

The Slow Rush‘ è però il secondo album di fila che Kevin scrive, suona e produce completamente da solo. Un ritorno a quel concetto di “registrazione casalinga” datato 13 anni or sono, giacché buona parte del disco è stata incisa nel suo studio privato di Freemantle. Si tratta peraltro della sua più netta sterzata creativa, sebbene nel precedente ‘Currents‘ già si potessero intravedere i germogli di un suono che è ormai solo parzialmente psichedelico e, sicuramente, non più rock. Nel quarto album accreditato ai Tame Impala non si sentono chitarre elettriche fino alla dodicesima e conclusiva traccia, ‘One More Hour‘. Ci sono, come nell’LP del 2015, un sacco di tastiere e sintetizzatori, che spesso e volentieri si raggomitolano in loop che vanno a sfiorare l’italo-disco e il French-touch, mentre su di essi la voce di Parker è costantemente in falsetto, neanche si trattasse di un tributo ai Bee Gees. Ai barbuti biondi capelloni, a quanto pare sognati durante un trip a base di oppiacei, c’è anche un forte avvicinamento melodico: se non fosse che è ben poco rock, ‘The Slow Rush‘ si potrebbe anche definire “soft-rock“. Per essere precisi al 100%, però, la corretta descrizione dovrebbe essere più composita, una sorta di “psych-dream-soft-disco-pop“.

E’ proprio questo blend sonoro, assolutamente inedito e molto denso di stratificazioni, a definire il nuovo corso di Kevin Parker come Tame Impala. Attenzione, non si tratta di una semplificazione a fini commerciali della sua musica, che rimane altamente articolata, con la metà dei pezzi che superano i 5 minuti e un totale di 57′, tantissimo per un album dei tempi che corrono. E’ però quanto serve a Parker per sviluppare il suo nuovo suono, oltre che il concept del disco: un’attenta riflessione sul trascorrere del tempo e più in generale sul senso della vita. Travis Scott, Lady Gaga, Mark Ronson e il suo nuovo ‘lavoro’ di produttore pop non c’entrano, conta più una frequentazione meno roboante, tra le tante collaborazioni degli ultimi cinque anni (ovvero tra ‘Currents‘ e questo disco), quella con il producer Zhu per l’ottima ‘My Life‘. Lo si sente nei bassi incalzanti di ‘Lost In Yesterday‘ e ‘Is It True‘, brani che svegliano un po’ dal torpore onirico della parte centrale del disco (‘Tomorrow’s Dust‘ e ‘On Track‘), o nella vera e propria house di ‘Glimmer‘, piuttosto che nell’opener ‘One More Year‘ o nei downtempo di ‘Borderline‘ e ‘Breathe Deeper‘. Tutte tracce che crescono parecchio con gli ascolti, e che rendono impressionante il confronto con brani, ottimi ma di certo molto più derivativi, quali ‘Solitude Is Bliss‘ o ‘Elephant‘. Analogamente a ‘Tranquility Base Hotel & Casino‘ degli Arctic Monkeys, altra rivisitazione complessa dell’easy-listening, ‘The Slow Rush‘ creerà una netta divisione tra estimatori e detrattori, ma alla stessa stregua rivela quanto, in presenza di musicisti di eccezionale talento, l’arte declinata in musica possa raggiungere vette compositive e creative difficili da immaginare a priori.

VOTO: 😀



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