La Top 20 del decennio: anni ’10


La lista dei 20 album che si ritengono i più rilevanti tra quelli usciti nel decennio che si sta per concludere. Qui, invece, le scelte dei lettori.


1. David Bowie: ‘Blackstar’ (RCA, 2016)

La decisione di far uscire ‘Blackstar‘ l’8 gennaio 2016, il giorno del 69° compleanno di David Bowie, fu intenzionalmente programmata; impossibile però prevedere che solamente due giorni dopo il Duca Bianco avrebbe lasciato questo mondo. Così, il 25° album della sua carriera, composto con la consapevolezza di una fine che si stava per avvicinare, divenne anche uno strumento di commemorazione globale, tanto da arrivare primo in classifica in 35 paesi diversi. Di questa dolorosissima promozione in realtà non ne avrebbe avuto bisogno, perché si tratta di un capolavoro assoluto di per sé. ‘Blackstar‘ è un disco autenticamente alternativo, suonato con una backing-band di jazzisti, spaziante tra un infinità di generi, caratterizzato da strutture irregolari e dilatate ma recanti irrevocabilmente il trademark di uno dei più grandi artisti della storia della musica (e non solo).


2. Arctic Monkeys: ‘AM’ (Domino, 2013)

Che gli Arctic Monkeys non fossero più la band del “robot from 1984” degli esordi in età da teenager era già evidente da un paio di album, soprattutto dopo la svolta desertica di ‘Humbug‘ (2009). ‘AM‘ è un’altra rivoluzione, ancora maggiore a livello stilistico, un avvicinamento evidente a quella black music che stava cominciando a monopolizzare classifiche e ascolti, ma senza mostrare sudditanza, anzi: il quinto LP in carriera della band di Sheffield presenta i riff di chitarra tra i più indovinati della loro intera carriera, e quanto ne conseguì, il perfetto punto d’incontro tra gli Outkast e i Black Sabbath (due delle influenze citate da Turner) divenne il loro album di maggior successo commerciale, permettendogli la conquista dell’America e delle chart di Billboard.


3. Arcade Fire: ‘Reflektor’ (Merge, 2013)

Anche ‘The Suburbs‘ del 2010 si rivelò un grandissimo album, ma ‘Reflektor‘ si fa preferire perché crediamo rappresenti il più alto livello artistico mai raggiunto dagli Arcade Fire, in cui le classiche influenze del collettivo canadese, essenzialmente la tradizione folk-rock e Bowie, lasciano definitivamente spazio a un suono unico e forse irripetibile. Merito della co-produzione di James Murphy degli LCD Soundsystem, che dà al disco un tocco ancora più danzereccio di quanto avevano già in mente Win Butler e Régine Chassagne dopo uno stimolante viaggio ad Haiti. Merito anche di un concept solidissimo, ispirato in parte da un film musicale brasiliano del 1959, ‘Black Orpheus‘, riadattamento cinematografico della leggenda di Orfeo ed Euridice. E’ l’imprevedibilità totale dello sviluppo di ognuna delle sue 13 tracce il pregio maggiore di questo LP, ma anche la sua estrema fruibilità nonostante le strutture complesse e la durata extra-large (ben 75 minuti).


4. The National: ‘High Violet’ (4AD, 2010)

La costante crescita qualitativa dei National, culminata col precedente ‘Boxer‘ (2007), prese una direzione differente con ‘High Violet‘, l’album che è probabilmente il più celebre del quintetto originario di Cincinnati e che li portò anche a vendere molto, con un disco d’oro in quattro nazioni e 200.000 copie vendute pressoché immediatamente nella sola Europa. E’ in effetti il loro LP più arioso e più prodotto, una sorta di versione divulgabile del loro rinomato stile musicale. Beninteso, non c’è nessun compromesso in questo disco, solo una raccolta delle loro melodie più efficaci, da ‘Bloodbuzz Ohio‘ a ‘Terrible Love‘, da ‘England‘ a ‘Vanderlyle Crybaby Geeks‘, tutt’oggi la chiusura in singalong dei loro concerti.


5. Tame Impala: ‘Currents’ (Modular, 2015)

E’ il passaggio da derivativi a seminali a ben rappresentare l’importanza di ‘Currents‘ per la carriera e per la reputazione dei Tame Impala. E’ anche il disco che segna la trasformazione di ciò che era un gruppo in one-man-band: è Kevin Parker a essersi occupato di quasi tutto, dal canto alla produzione passando per l’esecuzione per ogni singolo strumento. Più che di rock psichedelico, si può ora parlare più correttamente di pop psichedelico: l’aumento dell’incidenza dei sintetizzatori (rigorosamente vintage) in luogo delle chitarre porta a una sorta di ridefinizione del genere, che flirta spesso e volentieri col soft-rock e grazie ad esso aumenta maggiormente la propria componente onirica. Un connubio che sarebbe stato riproposto con sempre maggior frequenza nella seconda metà del decennio da numerose band follower.


6. Bon Iver: ‘Bon Iver’ (4AD, 2011)

Chi definì ‘Bon Iver‘ (in quanto album) una “ambitious musical departure” rispetto a ‘For Emma, Forever Ago‘, il fulminante esordio di quattro anni prima, dovette nel tempo ricredersi. La sterzata è nulla a confronto di quelle operate da ‘22, A Million‘ (2016) e del recente ‘i,i‘ (2019). In questo disco c’è ancora il Justin Vernon idealizzato dopo il suo esordio come miglior cantautore di una generazione, quello del folk con il falsetto, quello dalla non comune abilità di emozionare (si ascolti, un esempio per tutti, ‘Holocene‘). Si tratta di un disco composto e suonato non più da una sola persona ma per un’intera band, in questo senso la fisiologica evoluzione delle sue prime canzoni. E’ anche l’ultimo attestato di indubitabile eccellenza per il musicista americano, prima che un’eccessiva smania produttiva prendesse il sopravvento sulla sua scrittura.


7. Sufjan Stevens: ‘Carrie & Lowell’ (Ashtmatic Kitty, 2015)

Fu la morte della madre, avvenuta nel 2012, a ispirare le canzoni del settimo lavoro in studio di Sufjan Stevens. Un lavoro ben distante dalla magniloquenza del progetto, poi abortito, di un album per ogni stato americano, che aveva dato però vita al suo migliore LP, ‘Illinois‘ del 2005. Al contrario dell’effervescenza di quel disco, ‘Carrie & Lowell‘ è malinconico e minimale, un vero e proprio album folk. Fu il produttore Thomas Bartlett a dargli questo suono, anch’egli fresco di lutto per la scomparsa del fratello. E’ una sorta di elaborazione del dolore dall’indicibile empatia, che presenta alcune delle migliori composizioni della ricchissima discografia cantautore di Detroit; di certo tutte le sue migliori di questo decennio.


8. PJ Harvey: ‘Let England Shake’ (Island, 2011)

Decisivi per la realizzazione di questo disco furono l’incontro di PJ Harvey con l’autoharp (uno strumento che è una sorta di via di mezzo tra chitarra e arpa), le sue letture colte come T.S. Eliot e Harold Pinter, ma anche quelle delle testimonianze dei soldati che avevano prestato servizio in Iraq e Afghanistan. Importantissimo il team produttivo, di primissimo livello: John Parish, l’ex Bad Seeds Mick Harvey e Flood. Ma soprattutto la stessa PJ, che voleva fare qualcosa che non aveva mai fatto prima, una sorta di concept sulla brutalità della guerra. Tutto è finalizzato a rendere la sua narrazione più vivida possibile, dalla scelta di una strumentazione ricca ma mai ingombrante, alla calibrazione vocale per l’interpretazione dei brani. Quanto sia riuscito questo LP lo testimonia una statistica: in quel 2011 fu eletto disco dell’anno da ben 16 tra riviste e webzine, oltre a vincere Mercury Prize e Ivor Novello Award.


9. St. Vincent: ‘St. Vincent’ (Loma Vista, 2014)

Un disco da party che puoi suonare a un funerale“: così Annie Clark descriveva il quarto album della sua carriera come St. Vincent, non a caso intitolato allo stesso modo. Aveva evidentemente capito si potesse trattare di un disco importante, anche per il bagno di creatività che due anni prima aveva fatto per ‘Love This Giant‘, l’LP in collaborazione con David Byrne. C’è molto dell’istrionismo dell’ex Talking Heads in questo disco, i cui demo erano stati registrati con GarageBand (e lo si avverte anche nella versione finale), ma per cui poi ci sono voluti ben sei mesi di registrazioni insieme al produttore John Congleton per dare la giusta organizzazione alle centinaia di idee che ‘St. Vincent‘ contiene. Anche in questo caso, grandissimo successo di critica (disco dell’anno per NME e Guardian) e un Grammy Award come miglior album alternativo.


10. Beach House: ‘Teen Dream’ (Sub Pop, 2010)

È una continuità impressionante quella mostrata dai Beach House per tutti gli anni Dieci, inaugurati nel gennaio del 2010 da quello che molti (e pure noi) considerano il loro disco migliore in assoluto. La voce di Victoria Legrand e la chitarra di Alex Scally trovarono, al terzo tentativo insieme, pieno completamento, dando vita una personalissima declinazione di ciò che viene comunemente definito dream-pop, immediatamente riconoscibile ed estremamente appagante. ‘Zebra‘, ‘Silver Soul‘, ‘Norway‘ e ‘Walk In The Park‘ è un poker di partenza ad altissimo impatto, anche per la grande cura per i dettagli di registrazioni per le quali “abbiamo speso tutti i soldi che avevamo“, come confessarono i due all’epoca.


11. Daft Punk: ‘Random Access Memories’ (Columbia, 2013)

Negli anni ’10 capitò anche che i Daft Punk abbandonarono l’elettronica. Fatta eccezione che per qualche drum machine, sintetizzatore e vocoder, tutto ‘Random Access Memories‘ è registrato analogicamente, con musicisti veri, Daft Punk compresi, accreditati di suonare synth, tastiere e chitarre. Insieme a loro, spicca il chitarrista degli Chic Nile Rodgers, perfetto nel ricreare con la sua chitarra quell’atmosfera da disco-music di fine ’70/inizio ’80 che era l’obbiettivo principale della produzione del duo francese. Nei credits tantissimi altri ospiti illustri: il ‘nostro’ Giorgio Moroder, Panda Bear, Julian Casablancas, Chilly Gonzalez e Pharrell Williams, voce dell’ennesimo singolo dominatore di classifiche, ‘Get Lucky‘. Il successo commerciale fu immenso: 26 numeri 1 in classifica, 18 dischi di platino in varie nazioni, 3.2 milioni di copie vendute solo nel primo anno di pubblicazione.


12. Vampire Weekend: ‘Contra’ (XL, 2010)

Oltre a una conferma dei Vampire Weekend come una delle più importanti e influenti nuove band in ambito indie-rock, ‘Contra‘ fu anche la definitiva rivelazione di due talenti fuori dall’ordinario: quello di songwriter di Ezra Koenig, e quello di produttore di Rostam Batamanglij. Pur confermando l’allegria e il divertimento dell’omonimo debutto di due anni prima, il sophomore della band newyorkese si allarga a nuove e inedite influenze, dallo ska al latin beat, ampliando strumentazione e stratificazioni. L’unicità dei Vampire Weekend divenne ancora più unica ed evidente in canzoni come ‘Horchata‘, ‘California English‘, ‘Cousins‘ e ‘Run‘, tra i picchi di creatività di tutta la discografia del quartetto. E’ proprio ascoltando attentamente questo disco che si comprende come, in fondo, quello uscito quest’anno non sia poi un granché.


13. LCD Soundsystem: ‘American Dream’ (DFA, 2017)

Quando uscì ‘American Dream‘, quei cinque anni di sospensione dell’attività degli LCD Soundsystem come gruppo parevano non esserci mai stati. Sin dalle prime due canzoni rese di pubblico dominio, ‘Call The Police‘ e ‘American Dream‘, fu evidente come il livello era immutabilmente rimasto quello, altissimo, dei primi tre album. Il quarto LP della creatura di James Murphy si mostrava però meno votato al dancefloor dei suoi predecessori. Ispirato con grande evidenza da David Bowie (scomparso poco prima il concepimento di questo lavoro), incorpora una versione più matura e cantautorale della band newyorkese, molto evidente anche nelle tematiche, alquanto personali, descritte dai testi. Evidentemente gli LCD Soundsystem avevano ancora molto da dire, e in maniera differente rispetto a quanto avevano fatto nella prima parte della loro carriera.


14. Radiohead: ‘A Moon Shaped Pool’ (XL, 2016)

Sono stati soltanto due gli album dei Radiohead a essere pubblicati negli anni ’10: ‘The King Of Limbs‘ del 2011, anche alla luce della carriera solista che seguì un disco che presenta l’incontrastata impronta di Thom Yorke, ed ‘A Moon Shaped Pool‘, sforzo realmente collettivo e decisamente più analogico del precedente. Composto, come spesso è capitato alla band di Oxford, da canzoni lavorate molto a lungo nel tempo (in alcuni casi anche 15-20 anni), è caratterizzato dal frequente utilizzo di orchestrazioni, arrangiate da un Jonny Greenwood ormai abituato a farlo nei suoi side-project neoclassici e cinematografici. Molto ostico e criptico, risente della serie di lutti che ha accompagnato la lavorazione del disco: le scomparse del padre del produttore Nigel Godrich, l’incidente che costò la vita a di un tecnico di palco durante la preparazione di un concerto a Toronto, e la malattia dell’ex moglie di Yorke, Rachel Owen, deceduta poco dopo l’uscita dell’album. Non è probabilmente il migliore LP della discografia dei Radiohead, ma il loro talento superiore è sufficiente a permettergli di entrare in una top 20 dedicata a un intero decennio.


15. Nick Cave And The Bad Seeds: ‘Ghosteen’ (Ghosteen Ltd., 2019)

Quante altre band come Nick Cave And The Bad Seeds continuano a cavalcare l’onda del successo, in perfetta armonia tra pubblico e critica, da ben quattro decenni? I loro anni Dieci sono stati pressoché perfetti, tre dischi come ‘Push The Sky Away‘ (2013), ‘Skeleton Tree‘ (2016) e ‘Ghosteen‘ (2019) hanno pochi eguali per continuità qualitativa. Il più recente, però , è qualcosa di unico: per la tragedia personale che ha coinvolto il cantautore australiano, per come egli stesso vi ha trovato ispirazione e per la forza mostrata nell’elaborare il lutto e reagire al dolore. Se musicalmente il concept dell’opera non ha consentito eccessiva varietà (ma le basi costruite dalle tastiere raccolte da Warren Ellis sfiorano creativamente l’inimmaginabile), a livello di testi siamo di fronte a quelli probabilmente più pregnanti ed emozionanti del decennio.


16. Anna Calvi: ‘Anna Calvi’ (Domino, 2011)

Prendete il produttore storico di PJ Harvey e mettetelo in studio con la più grande promessa del cantautorato inglese di inizio decennio. Non può che uscirne uno dei debutti più impattanti della storia recente, un disco in cui le eccelse abilità di chitarrista e di vocalist della musicista londinese sono le principali protagoniste. “Volevo che la sua chitarra suonasse come un’orchestra“, racconta Rob Ellis delle registrazioni dell’album, che incorpora moltissime influenze colte, dalla tradizione cantautorale francese a Jeff Buckley passando per la stessa Harvey. Eppure, ancora oggi Anna Calvi non è considerata quanto meriterebbe. La domanda che allora retoricamente poniamo è questa: quanti contemporanei possono mostrare la stessa abbondanza di differenti talenti?


17. Daughter: ‘If You Leave’ (4AD, 2013)

La genesi dell’album di debutto dei Daughter fu assai semplice: una talentuosa cantautrice (Elena Tonra) ha per la mani una manciata di belle canzoni; decide così di registrarle con l’aiuto di due amici e di chiamare il progetto con il nome di una band. La fase di incisione fu talmente rapida da non aver neanche potuto provare i brani prima di inciderli, ed è probabilmente una delle ragioni per cui suonano tutti così comunicativi e spontanei. Il culto per il dream-folk dei Daughter, sebbene non celebratissimo dalla stampa, è cresciuto sempre più; a distanza di diversi anni si può parlare, anche in questo caso, di sottovalutazione di un disco formalmente e emotivamente perfetto, rappresentato splendidamente dal singolo ‘Youth‘.


18. Idles: ‘Brutalism’ (Partisan, 2017)

Complice la sparizione di diverse testate e la trasformazione della rivista guida della scena indipendente inglese, l’NME, in webzine generalista, anche il Regno Unito ha allentato molto la propria attenzione sull’alternative-rock, finendo per preferirgli pop da classifica e hip-hop. Quella punk e post-punk britannica è però la più interessante scena rock emersa negli anni ’10, per merito di precursori come i Fat White Family ma soprattutto di una band come gli Idles, fiera working class di Bristol che parla delle ingiustizie della società contemporanea con un impeto ereditato dai punk di fine anni ’70, aggiungendogli di suo ironia e sarcasmo. A comandarli c’è Joseph Talbot, vero e proprio animale da palco ma anche, a dispetto delle apparenze, raffinato songwriter. Sebbene il successo lo abbiano raggiunto con il sophomoreJoy As An Act Of Resistance‘ dell’anno scorso, ‘Brutalism‘ è il disco che li ha introdotti al mondo intero come un vero e proprio pugno sui denti, e che ha rinfrancato le speranze di chi intende la musica anche come messaggio.


19. Mac DeMarco: ‘2’ (Captured Tracks, 2012)

Il fatto di aver chiamato il proprio album di debutto ‘2‘ e di averci tenuto a far sapere di averlo registrato in mutande, fa capire che razza di personaggio sia Mac DeMarco, cantautore stilisticamente molto raffinato e liricamente profondo, ma allo stesso tempo inarrestabile buontempone che cento ne pensa e cento ne fa. Il suo è un soft/psych/jangle-pop/rock di grande esclusività, divenuto uno dei pastiche più seminali dei 10 anni che si stanno per concludere. Questo primo LP mostra una maturità, anche e soprattutto in fase di produzione, sorprendente per un esordio, e lo ha immediatamente portato ad avere un posto assicurato in praticamente ogni grande festival internazionale, grazie anche alla riconosciuta abilità della band che lo accompagna live.


20. WU LYF: ‘Go Tell Fire To The Mountain’ (LYF, 2011)

Durarono troppo poco i WU LYF, ma il loro unico album è testimonianza di come, anche nel 21esimo secolo, si potesse continuare ad innovare in ambito rock senza stravolgerne troppo la forma. Registrato in una chiesa sconsacrata vicino Manchester, ne acquisì la solennità, in continua antitesi con il cantato rozzamente punk del frontman Ellery James Roberts, una delle voci più caratterizzanti della sua generazione. Le canzoni dei WU LYF erano assolutamente imprevedibili, le evidenti influenze post-rock ne destrutturavano l’incedere rendendole una proposta unica e irripetibile, se non altro per il repentino scioglimento avvenuto nel 2012.


Lascia un commento